Romanzo d’appendice

Il turbolento mare del sabir

    (II Puntata; “Un amaro rientro”)

 

RIASSUNTO DELLA PRIMA PUNTATA (“Uluğ Alì a Chiaia“)

Maggio del 1563. Il terribile pirata e ammiraglio ottomano Uluğ Alì, calabrese  rinnegato, compie una scorreria a Chiaia, la riviera di Napoli, con l’intento di rapire la Marchesa del Vasto, Maria d’Aragona, sposa di Alfonso dAvalos. È con lui Kirmiz, “il rosso”, l’antico pescatore Domenico, anch’egli a suo tempo sequestrato dai pirati saraceni e convertito all’Islam per necessità. Ma Kirmiz è tornato per cercare Caterina, la ragazza di cui era innamorato, ora ancella della Marchesa. A palazzo d’Avalos, tuttavia, la Marchesa e Caterina erano assenti in quei giorni. Dopo un drammatico incontro con il fratello Nicola, Kirmiz deve tornare frustrato a Istanbul, lasciando il Palazzo dAvalos in cupa devastazione…

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              Quando Caterina rientrò a Napoli insieme alla Marchesa del Vasto, furono ospitate entrambe presso il monastero di Sant’Arcangelo a Baiano, a Forcella, presso le suore benedettine tanto care alla gentildonna. Il palazzo era infatti ancora inagibile, dopo le devastazioni operate dai pirati barbareschi, e la Marchesa intendeva rendere grazie a Dio per lo scampato pericolo.

I racconti dei domestici e dei famigli sopravvissuti all’incursione erano stati vividi nel descrivere le ruberie, gli abusi, le atrocità. Ma a Caterina era rimasto inchiodato in mente quel ragazzo dai capelli rossi che, nel resoconto dei servi della Marchesa, non aveva fatto altro che cercare di lei. Un ragazzo dai capelli rossi che non poteva essere altri che il pescatore che anni prima incontrava sovente, quello che le parlava con sguardo più eloquente delle più luccicanti parole, al quale ella stessa rispondeva con il celeste sorriso. Quello che, come s’era saputo, era stato rapito dai saraceni, e di cui non s’era saputo più nulla. Non era stato, dunque, incatenato al remo di qualche galea, o tenuto schiavo di qualche pascià. Se era arrivato a Napoli con le ciurme di Uccialli, doveva essersi convertito al culto di Allah, forse per sfuggire a più orribili destini… Tanti erano i rinnegati che si facevano mussulmani e abbracciavano le trucide pratiche turchesche. Era stato quello il destino di quel giovane, quel Domenico che tanto le aveva nutrito i sogni? Sì, quel ragazzo avrebbe potuto amarlo. Ma ora, ora che era certo un rinnegato, un turco, un nemico?

“Marchesa”, confidò a Donna Maria, “il racconto dei servi mi ha molto turbata. Con Domenico vi era un intreccio di sguardi che avrebbe certo condotto a un amore e a un matrimonio consacrato nel nome del Signore. Dopo la sua sparizione non ho più pensato a lui. Ma ora so che mi ha cercata, forse mi cerca ancora e ancora mi cercherà. Però adesso è un rinnegato. E come potrebbe una giovane cristiana e timorata di Dio congiungersi a un miscredente, un pirata massacratore di fedeli, quand’anche fosse possibile incontrarsi di nuovo?”

“Mia cara Caterina”, le rispondeva Maria d’Aragona, “i tuoi turbamenti, ora che le ultime vicende hanno riportato al cuore il ricordo di quel pescatore, sono normali per una fanciulla della tua età. Tuttavia, il destino che questo Domenico ha scelto per sé lo allontana da te, lo allontana per sempre, come lo allontana da Santa Madre Chiesa. E tu dovrai affidarti a Dio, alla confessione e alla fede perché ti aiutino a dimenticarlo. Approfitta di questo soggiorno nel convento per un’immersione nella preghiera. Ne uscirai ristorata nello spirito e rasserenata nell’anima”.

Così Caterina si associò alle pratiche religiose delle sorelle benedettine: preghiera comune, preghiera individuale, lavoro.

Santa Scolastica, l’ispiratrice di quell’ordine femminile, aveva soprattutto raccomandato di osservare la regola del silenzio e di evitare soprattutto la conversazione con persone estranee al monastero, anche se si dovesse trattare di persone devote in visita. Le famiglie aristocratiche, tuttavia, come era quella dei d’Avalos, erano comunque ben accette nei conventi, pur avendo contatti prevalentemente solo con la madre badessa, la quale, per il grado e per la provenienza a sua volta da famiglie nobili, poteva concedersi qualche licenza, e concederne anche alle sorelle più giovani o inferiori. La clausura era comunque il valore supremo di quelle monache, e ogni incontro doveva essere autorizzato dal Padre Vicario.

Come in tutti i monasteri benedettini femminili, la vita all’interno di Sant’Arcangelo a Baiano prevedeva l’obbedienza indiscussa alla Madre Badessa, che era depositaria di saggezza, sagacia e ponderazione, e vigilava sulla spiritualità e sul comportamento delle monache, occupandosi della chiusura e apertura delle porte del convento, essendo essa la prima ad alzarsi e l’ultima ad andare a letto; compiti che poteva delegare solo in casi estremi di infermità.

Dopo un colloquio con la Marchesa, Caterina fu comunque autorizzata ad avere conversazioni con le sorelle più giovani, e apprese a distinguere fra novizie e converse, che portavano sul capo un velo bianco, e professe, che indossavano un velo nero. Partecipava con esse alle preghiere e con esse condivideva i lavori del convento e i pochi momenti di distrazione. La Madre Badessa controllava che la giovane Caterina, che non era consacrata, non costituisse per le religiose una cattiva amicizia, avendo già conosciuto, seppur solo in cuore, seppur solo in sogno, il sogno dell’amore. Ella stessa, o su suo ordine le suore più zelanti, partecipavano in genere alle conversazioni di Caterina con le sorelle, al fine di assicurarsi che queste non facessero perdere oziosamente tempo alle suore, distogliendole dalle pratiche spirituali o dal lavoro. Altrimenti avrebbero riferito al Padre Vicario per i provvedimenti del caso.

Caterina partecipava volentieri a quella vita, anche se, animata dai normali spiriti di una fanciulla in fiore e dalle speranze dei suoi diciott’anni, comprendeva poco le ragioni di quelle giovani, che avevano scelto di rinunciare al fiorire della propria femminilità e alle gioie dell’amore per accogliere una vita fatta di regole ferree, di obbedienza cieca, di duro lavoro… Era contenta che per lei non si sarebbe trattato che di un periodo transitorio.

***   ***   ***

              Il rientro a Palazzo d’Avalos fu meno lieto di quanto Caterina si aspettasse. Vi aleggiavano ancora i lutti lasciati dai pirati e il ricordo di un’intrusione volgare e scellerata. L’incursione di Uluğ Alì aveva lasciato inoltre a Chiaia un alone di angoscia e allarme. La stessa edificazione di torri di guardia che il Viceré aveva prontamente ordinato, inquietava, più che rassicurare, con il marziale profilo che impediva la vista di tratti d’orizzonte.

La Marchesa si era intanto ammalata. Tosse e convulsioni l’avevano indebolita massimamente, le febbri si alternavano a periodi di spossatezza, e sperimentava angosciose difficoltà persino nel respirare. Fu presto evidente che era arrivata alla fine del suo percorso terreno. Soprattutto ne ebbe ella stessa piena coscienza. Oltre agli impotenti medici e all’adorato marito, si incontrava frequentemente con il Padre Vicario del Monastero di Sant’Arcangelo a Baiano, per prepararsi adeguatamente al grande viaggio.

Caterina era angustiata da ciò che oramai anche lei comprendeva: che sarebbe stato di lei alla morte della Marchesa? Era stata quest’ultima ad adottarla dall’Annunziata, orfana bambina, e in casa d’Avalos non vi erano altri che avessero per lei un bene tanto grande come quello della Marchesa. Sarebbe stata tenuta come serva, o forse data in isposa a qualche vecchio parente di Don Alfonso. O addirittura rinchiusa, senza colpa e senza scandalo, in qualche asilo o casa di soccorso per le pentite, insieme a prostitute e meretrici, o in qualche ricovero per le vergini pericolanti. Avrebbe avuto tagliati i capelli, sarebbe stata spogliata d’ogni vanità, avrebbe dovuto indossare la veste di penitenza e cominciare un anno di duro noviziato durante il quale le sarebbe stato insegnato ben bene il modo d’amare il Signore, e sarebbe stata avviata all’apprendimento delle regole di lavoro…

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              “Figlia mia”, le disse un giorno con fievole voce Maria d’Aragona, la Marchesa del Vasto; “Non ho più molto da vivere; lo vedi anche tu. Il male mi ha consumata, le ossa non più mi reggono, ogni respiro mi costa immensa fatica, e presto esalerò l’ultimo. Quello che mi ha sostenuto finora, è stato lo sforzo per assicurarmi il miglior trapasso verso il cielo. Hai visto quanto tempo ho trascorso con il Padre Vicario. Adesso che la mia coscienza è depurata da ogni gravame e da ogni peccato, sento che le forze stanno per abbandonarmi del tutto. Ma non ti lascerò improtetta in questo mondo difficile e crudele… Ascolta…”

Sussurrando flebilmente all’orecchio della ragazza, la stanca Marchesa parlò ancora per un’ora, alternando parole e penosi sospiri con pause di obnubilamento.

Caterina ascoltava, assorta e pallida, senza manifestare alcuna reazione o sentimento.

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              Il Monastero di Sant’Arcangelo le aprì le porte sei mesi dopo. La Marchesa era a quel punto entrata in un dormiveglia senza vera vita dal quale non si sarebbe più ripresa, morendo un paio d’anni dopo. Caterina aveva appena compiuto diciannove anni.

Dopo i timori che aveva avuto sul proprio possibile futuro, il Monastero le sembrò una sistemazione di non poco conforto. Ne aveva dopotutto già avuto un assaggio, le giovani suore le erano state amiche, la Madre Badessa la guardava, così le era parso, con severo affetto. Fu accolta con gioia: portava tra quelle mura austere un’ispirazione di vita esterna, un accenno non detto alle mille cose che nel romitorio erano proibite, un palpito di curiosità innominabili, benché tutto sommato innocenti. Caterina avrebbe per questo accettato meno malvolentieri le stesse pratiche cui sarebbero stata sottoposta in un ricovero di pentite o di vergini pericolanti: qui, al Monastero, era giunta non a seguito di un misfatto, non coperta di vergogna, ma per abbracciare Gesù in una vita di santità e purezza.

Indossò quindi il bianco velo di novizia; lo avrebbe portato per un anno sotto la guida di Madre Apollonia, la Madre Maestra delle novizie come lei, per poi prendere gradualmente i voti più severi e fare la definitiva professione di fede e di vita monastica.

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              “A palazzo d’Avalos avrai visto tante cose”, la interpellava Suor Teresa, una conversa appena più grande di lei, che però era entrata in convento all’età di dodici anni; “Come si comportano lì le donne? È vero che le serve e le sguattere compiono con gli uomini cose che noi qui dentro non possiamo né comprendere né conoscere?”

Caterina era stupita da quelle curiosità in ragazze che avevano compiuto scelte così rigorose. Certo, lei era a conoscenza delle cose che “sguattere e serve compiono con gli uomini”, anche se lei stessa non ne aveva mai compiuto. Tuttavia, esitava a raccontare. Le sarebbe sembrato di corrompere il candore di quelle vite monde d’ogni conoscenza diversa dall’amore per Dio e per i santi. Avrebbe avuto l’impressione di essere essa stessa portatrice di corruzione, fra quelle mura immacolate. Non le era difficile divagare, scantonare. Dopotutto, sul piano pratico lei ne sapeva quanto quelle converse e professe. Almeno di questo era persuasa.

Madre Apollonia la seguiva con particolare affetto e attenzione. Le diceva sempre che i suoi occhi celesti avevano lo stesso colore del cielo, e che quindi suscitavano sentimenti d’amore più vicini all’amore divino. Non doveva stupirsi, quindi, se la Madre Maestra l’avvicinava più delle altre novizie, ne indagava con maggior costanza e insistenza l’animo e le intenzioni; e se qualche volta le accarezzava le gote, infilando le dita sotto il velo che ne stringeva il viso.

Caterina era contenta. Per certi versi quell’affetto le ricordava quello della Marchesa. Vi si sommetteva perciò con letizia e con rispetto, rispondendo a quei gesti con sorrisi che facevano brillare lo sguardo di Apollonia.

Quando passeggiando accanto alla propria Maestra nel chiostro incontrava un gruppo di professe o di suore giovani, ne coglieva qualche risatina subito sopressa, le vedeva ammiccare e poi ricomporsi appena erano notate. Non comprendeva il senso di quei comportamenti, ma non poteva chiederlo: le novizie potevano parlare solo fra loro e con la Madre Maestra.

Nel cuore della notte, o prima di addormentarsi nella propria cella, udiva talvolta rumore di passi, voci subito soffocate nei corridoi, chiacchiericci sommessi. Non se ne spiegava la ragione, considerato che una delle principali regole del Monastero era il silenzio, soprattutto di notte, dopo le preghiere che chiudevano la giornata.

Era forse, quel cenobio, popolato da qualche monaciello burlone?

***   ***   ***

              Passati tre anni, ai suoi ventidue anni, Caterina compì la professione definitiva, e indossò il nero velo benedettino con il nome di Suor Ioanna.

La notte di quel giorno consacrato, si stava accingendo al sonno, quando udì alcuni colpi leggeri alla porta della cella.

“Chi è”, chiese allarmata.

“Sono io”, rispose Apollonia; “Apri…”

                                                                                                                                             (2. continua)

L'autore

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Mario Boffo

Mario Boffo, ex diplomatico (già ambasciatore in Arabia Saudita), romanziere, Presidente del Premio EPhESO per i rapporti euro-mediterranei. Vive a Roma.