onoscere Amy è stato amore a prima vista: introdotte a casa di una comune amica, fui subito ammaliata da un sorriso radioso e da uno sguardo magnetico e non ho potuto trattenermi dal dirle immediatamente quanto mi avesse folgorata. Prima di conoscerla come artista, il suo vissuto e la sua profondità mi sono apparse immediatamente evidenti in quell’istante.
Da allora è passato qualche anno ma il senso di profonda intimità di quel primo incontro non ha fatto che intensificarsi e consolidarsi in un linguaggio che non posso che definire romantico. Non è possibile separare Amy dal suo lavoro di artista, giacché vita e arte in lei sono legate intimamente in un nodo squisitamente autobiografico, in tutta la crudeltà e ironia, gioia e trauma che convivono nella sua opera come nella sua esistenza.
Amy è una persona illimitabile, così come la sua chioma scapigliata sfugge al governo di una spazzola, la sua arte è impossibile da costringere in un’unica disciplina: pittura, scultura, scrittura e arti performative si fondono in un connubio multidisciplinare che invita a un’immersione profonda nel suo personale, che come per un incantamento si universalizza. Collaborare con Amy è come avere un rapporto intimo con un amante passionale e esigente, coinvolgente ed esuberante.
Ricordo di aver letto Diary of a Young Boat in una pausa pranzo dal lavoro e incapace di staccare gli occhi dal testo mi chiusi nel bagno del negozio in cui lavoravo a piangere sulle ultime pagine del manoscritto, così come il Padre/Cane del Diario versa le sue lacrime nella scatola dove giace la testa morente della protagonista, che rievoca e inverte i ruoli di Salomé e del Battista o di Lisabetta da Messina e del suo amante Lorenzo, di decameroniana memoria.
Ho avuto il privilegio di dirigere Amy nella lettura del suo Diario e ricordo la gioia autolesionista, con la quale Amy accettava le mie provocazioni e i miei inviti a rivivere i traumi della sua infanzia, performando su lamentazioni in lingua ebraica o yiddish o su di una musica klezmer, o costretta a recitare il testo a bocca piena, mentre consumava un sacchetto di patatine fritte; e sadico era il mio piacere di assumere il ruolo di Cane/Padre che in una rappresentazione disgustante viola un tovagliolo col coltello al tavolo da pranzo, mentre tenta di spiegare goffamente alla figlia il concetto di dimensione e ancora più sadico era imporre a Amy stessa il ruolo del Cane.
Ogni giorno che si lavorava assieme era un susseguirsi di reciproche suggestioni, scambi esoterici, scientifici, artistici e costanti epifanie, come quando Amy si accorse che, allo stesso modo in cui la Barca del Diario comincia a perdere pezzi di sé a partire dall’alluce del piede, così anche i primi sintomi della sclerosi multipla, che ha cominciato ad affliggere Amy a quattro anni dalla stesura del Diario, sono cominciati da quello stesso alluce, come all’avverarsi di una profezia.
Nella prefazione al Diario così come nel film A Joyful Tragedy, Wallace Shawn pone fra le altre domande una che riverbera particolarmente con la mia sensibilità: Come ti senti all’idea di avere un corpo? Da persona transgenere, in possesso di un corpo inconforme, la quale lesse per la prima volta questa domanda e il Diario stesso all’inizio del proprio percorso di transizione, la mia risposta si è evoluta nel tempo: laddove allora la catarsi dello smembramento della Giovane Barca mi era risultata come un orrore confortante, come il coronamento dell’aspirazione di liberarsi di un corpo incongrue e abusato, ora quello stesso corpo trasfigurato, liberato mi è invece fonte di gioia e euforia; quella gioia che fu proprio Amy fra le prime persone a condividere, dal momento che il giorno che cominciò a realizzarsi fu proprio in coincidenza con una delle nostre sessioni di lettura.
Lunghissimi sono stati i nostri deragliamenti su questioni come il senso di colpa dei sopravvissuti, sulla giustizia e l’Orestea di Eschilo, sull’orrore e il fascino dell’azione analizzante, distruttiva, esemplificata dal potere della fissione dell’atomo. Amy mi ha sempre fatta sentire come una dei compagni di gioco amoroso e di scienza e fantascienza che la Barca coinvolge nei suoi esperimenti impossibili di telecinesi, trasfigurazione e sospensione della dimensione temporale, stendendo una rete di connessioni a filo e specchi, mettendo in tensione le corde della vela che ci proietta entrambe in direzione dell’ignoto, passando attraverso le acque ferme e torbide della depressione e della malattia e quelle tempestose delle tragedie che investono la vita e dei desideri più autodistruttivi e violenti.
È anche da queste suggestioni e naufragi che credo sia stata concepita in Amy, l’idea di Murder Ballads o di Horror Autotoxicus, suoi prossimi e correnti lavori, dentro ai quali immancabilmente vuole coinvolgermi col suo entusiasmo tutto americano, condito di metafore del baseball, temperato dal mio, molto più apparentemente riluttante e meno sportivo.
Non posso fare a meno di parlare d’amore se parlo di Amy, non posso fare a meno di parlare di Amy e non posso fare a meno di Amy. Nei suoi giochi di corde e specchi non posso fare a meno che vedermi riflessa in lei, nel suo femminismo così diverso dal mio, nel suo rifiuto degli stereotipi di genere, nel suo corpo così ribelle che si ribella anche a sé stesso. La nostra è una storia romantica, una storia violenta d’amore platonico: non c’è niente di più eccitante in tutto il mondo e volevo raccontarla, per farla diventare più universale.