Mi hai chiesto, carissimo Giuseppe – o forse è stata Anne, non ricordo – cosa mi abbia spinto a fare la serie “Breathers” (Esseri che respirano). E anche se mi capita di non ricordare chi abbia detto cosa e quando a distanza di soli pochi mesi, ricordo invece il momento in cui questi particolari quadri furono concepiti, con la nitidezza dell’arrivo di un extraterrestre, anche se si tratta di più di trent’anni fa. Ero in piedi in un terreno polveroso, parlando con la mia amica Karin, di fronte alla casupola nella quale vivevo allora, con un uomo che non amavo, ad Albuquerque, New Mexico. Era la metà degli anni Settanta e io avevo poco più di vent’anni. Non ricordo esattamente di cosa stavamo parlando io e Karin in quel particolare pomeriggio, ma scommetterei che probabilmente aveva qualcosa a che fare con le miserie quotidiane dell’amore corrisposto e degli irresistibili piaceri dell’amore non corrisposto, e con le glorie dell’arte e della poesia e della sfera spirituale, perché a quel tempo, nelle nostre vite, queste erano cose per noi più reali del terreno sul quale noi stavamo in piedi. Mi ricordo molto chiaramente che a un certo punto, durante la conversazione, Karin disse: “Chi, se gridassi, mi ascolterebbe tra le angeliche / schiere“? E io dissi “Che?… Cos’hai detto?”. E  lei lo ripeté. Probabilmente glielo feci ridire ancora due o tre volte, perché era la sequenza di parole più più strana, più straordinariamente bella che avessi mai sentito. Non avevo idea di che cosa significassero, ma il loro disordine – la sofferenza, e confusione, e bellezza che evocavano – era come una droga. Provocarono un cambiamento nell’aria intorno a noi, nel mio respiro e nel mio cervello. Come un vero incantesimo, quelle parole mi sbalordirono, ed ora, trent’anni dopo, posso dire inequivocabilmente che mi cambiarono per sempre. Lei mi disse che erano il primo verso delle Elegie di Duino di Rainer Maria Rilke, del quale non sapevo niente. Poi non ricordo cosa accadde.

Voglio dire, so che non corsi a comprare una copia delle Elegie quel giorno stesso. Dovettero passare almeno dieci anni prima che io fossi costretta, letteralmente, dalla divorante sofferenza che solo l’inizio della fine di una lunga storia d’amore può provocare, a trovare quel libro e leggere ciascuna elegia – disperatamente, lentamente, ripetutamente – come uno che abbia la febbre e sorseggi un liquido, nella speranza di guarire prima o poi. Lessi le Elegie di Duino molte, molte volte, l’anno in cui mi separai dall’uomo con il quale dovevo tornare ad est per sposarmi, cosa che non feci mai, afflitta e nobilitata dalla perdita, come nella descrizione di Gaspara Stampa fatta da Rilke. In quel disperato anno di solitudine a New York City, lessi e rilessi ogni elegia, ogni verso, ogni parola finché divennero parte di me. Lessi e dipinsi e disegnai, finché volli tornare a respirare. All’epoca – la metà degli anni ’80 – praticavo devotamente da dieci anni il gohn dagow (una forma di kung fu) e di meditazione del respiro. Così per mezzo della meditazione e della mia esperienza dell’amore, avevo sviluppato un’intima familiarità con l’annientamento: la liberazione che deriva dal perdersi completamente in un’inalazione e un’esalazione – “mettere da parte / persino il proprio nome come un giocattolo rotto” [und selbst den eigenen Namen / wegzulassen wie ein zerbrochenes Spielzeug]. Ma era la dissoluzione che fa a pezzi l’ego di quel cruciale affare di cuore – e sento che Rilke certamente approverà questa mia motivazione per andare in cerca del suo lavoro – che mi spinse a cercare il resto della poesia dalla quale era tratta l’indimenticabile “richiamo / di un cupo singhiozzo”  [Lockruf / dunkelen Schluchzens].

Così, nell’estate del 1985, subaffittai l’appartamento di New York City nel quale avevo vissuto e dipinto e andai in Italia, con la mia copia consunta delle Elegie di Duino di Rilke e una ingombrante valigia piena di di materiali da artista, per tirar fuori l’anima con la pittura in un fin troppo lindo appartamento a Milano. Spogliata dalla mia madrelingua e da tutti quelli che avevo conosciuto e amato – “Strano, vedere tutto ciò che un tempo era in relazione sparso così alla rinfusa qua e là nella stanza ” [Seltsam, / alles, was sich bezog, so lose im Raume / flattern zu sehen] – provai una specie di rinascita. Ma come pittrice non era una rinascita: era un arrivo, un emergere nel mio proprio linguaggio di artista. Ricordo che pensai: se un artista può dipingere qualcosa di così improbabile come un albero, impossibile come un bicchiere d’acqua, strano come un gruppo di persone sedute a tavola a mangiare patate, allora certamente io posso dipingere l’esperienza terribilmente palpabile e innegabilmente reale della mia propria psiche e della mia anima. Volevo che l’olio stesso – quella densa, inebriante materia – in qualche modo, mediante l’alchimia della volontà e dell’intelligenza e del desiderio, diventasse una cosa sola con la vaporosità dell’essere. Volevo dipingere il gesto umano e dargli forma in maniera tale che trascendesse le convenzioni narrative – disegnare e dipingere l’essenza dell’essere umano al livello più puro e primitivo – per esprimere il sé, spogliata della cultura e dalle relazioni, spogliata fino al livello del respiro.

Così, con solo Rilke nelle orecchie, mi feci strada nel profondo vuoto dentro di me, fino a sperimentare la bellezza e la morte contenute in ogni respiro.

“Perché, quando sentiamo, evaporiamo; oh, noi

respiriamo noi stessi fuori e via; da brace a brace,

rilasciando un profumo sempre più debole…”

 

Denn wir, wo wir hühlen, verflüchtigen; ach wir

Atmen uns aus und dahin; von Holzglut zu Holzglut

Geben wir Schwächen Geruch…

Il verso che Karin aveva recitato per me nel polveroso pomeriggio di Albuquerque – “Chi, se gridassi, mi ascolterebbe tra le angeliche schiere?” aveva impresso una prova indistinta ma irrefutabile di cos’è la grande arte: non una reiterazione del mondo visibile, ma un’espressione dell’ineffabile e irruente manifestazione di un basilare bisogno umano: rendere visibile quello che è invisibile.

I dipinti che feci a Milano quell’estate erano l’inizio della serie dei “Breathers“. Quando ritornai a New York City in autunno, lavorai per quasi un anno a quella serie, variando le dimensioni dei dipinti e i mezzi, combattendo con i materiali, lottando con la fisicità della pittura stessa e con la frustrante particolarità della forma umana. Ricordo chiaramente la gioia tormentosa di scomporre e ricomporre la forma fisica di un essere umano, ancora e ancora.

Se ricordo bene, i Three Breathers, i “Tre che respirano” (1987), fu uno degli ultimi dipinti che completai in quella serie. Come in molti dei miei lavori, volevo lasciare all’osservatore il compito di mettere insieme i pezzi di questi quadri – un atto condiviso di produzione del significato – sicché solo nell’occhio e nella mente e nell’anima di chi guarda il lavoro si completa realmente. Così, adesso, caro Giuseppe, i Three Breathers avranno senso solo nel tuo soggiorno, agli occhi tuoi e di Anne, e la gente che invitate nel vostro mondo – e quest’atto finale di alchimia mi dà molta gioia perché – “e però, ahimè” [Und dennoch, weh mir] – un incantesimo è solo una sequenza di parole, se non c’è qualcuno che stia là ad ascoltare.

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You asked, dearest Giuseppe—or maybe it was Anne, I cant remember—what prompted me to do the Breathersseries. And even though I cant remember who said what when just a few months ago, I do remember the moment those particular paintings were conceived with the vividness of the arrival of an extraterrestrial, even though it was more than thirty years ago: I was standing in the dirt, talking with my friend Karin in front of the little hovel in which I was then living, with a man I wasnt in love with, in Albuquerque, New Mexico. It was in the mid-1970s and I was in my early twenties. I dont exactly remember what Karin and I had been talking about on that particular afternoon, but I would guess it probably had something to do with the quotidian miseries of requited love, and the irresistible pleasures of unrequited love, and the glories of art and poetry and the spiritual orb, because at that time in our lives, those things were more real to us than the dirt we were standing in. I do remember very clearly that at some point during the conversation, Karin said: “‘Who, if I cried, would hear me among the angelic orders?’” And I said What? What did you just say?And she said it again. I probably made her say those words two or three more times because it was the strangest, most extraordinarily beautiful string of words I had ever heard. I had no idea what they meant, but the jumble of them—the agony and confusion and beauty they summoned up—was like a drug. They caused a change in the air around us, in my breathing, and in my brain. Like a true incantation, the words stunned me, and now, thirty years later, I can say, unequivocally, that they changed me forever. She told me it was the first line of the Duino Elegies, by Rainer Maria Rilke, about whom I knew nothing. I dont remember what happened after that.

            I mean, I know I didnt run out and buy a copy of the Elegies that day; it would be at least another decade before I was driven, quite aptly, by the all-consuming sorrow that only the beginning of the end of a long love story can induce, to find that book and read each elegy—desperately, slowly, repeatedly—the way a person with a fever must keep taking sips of a liquid if they hope to ever recover. I read the Duino Elegies many, many times the year I separated from the man I had moved back east to marry but never did—bereft and ennobled by the loss, like Rilkes description of Gaspara Stampa. That agonizing year of solitude in New York City, I read and reread each elegy, each line, each word until they became a part of me; I read and I painted and I drew until, at last, I wanted to breathe again. By this time—it was in the mid-1980s—I had been a devoted practitioner of gohn dagow (a form of gung fu) and breathing meditation for ten years. So, through my meditation as well as in my experience of love, I was intimately familiar with annihilation: the liberation of completely losing oneself in an inhale and an exhale—“laying aside even ones proper name like a broken toy[und selbst den eigenen Namen wegzulassen wie ein zerbrochenes Spielzeug]. But it was the ego-shattering dissolution of that crucial love affair—I feel certain that Rilke would condone this motivation for seeking out his work—that drove me to search out the rest of the poem from which that unforgettable call-note of depth-dark sobbing[Lockruf dunkelen Schluchzens] had come.

So, in the summer of 1985, I sublet the New York City apartment in which I was then living and painting, and went to Italy, with my tattered copy of Rilkes Duino Elegies, and an unwieldy suitcase full of art supplies, to paint my heart out in a much-too-tidy apartment in Milan. Stripped of my own language and everyone I had known and loved—“to see all that was once relation so loosely fluttering hither and thither in space”—I experienced a kind of rebirth. But as a painter, it wasnt a rebirth: it was an arrival, an emergence into my own language as an artist. I remember thinking: If an artist can paint something as improbable as a tree, as impossible as a glass of water, as insanely particular as a group of people sitting around a table eating potatoes, then certainly I can paint the terribly palpable and undeniably real experience of my own psyche and soul. I wanted the oil paint itself—that thick, intoxicating stuff—to somehow, through the alchemy of will and intelligence and desire, become one with the vaporousness of being. I wanted to paint human gesture and form in a way that transcended narrative conventions—to draw and paint the essence of a human being at its purest and most primal level—to express the self, stripped of culture and relations, stripped to the level of breathing.

So, with only Rilke singing in my ears, I felt my way through the vast emptiness necessary to experience the beauty and death contained in every breath.

“For we, when we feel, evaporate; oh, we

breathe ourselves out and away; from ember to ember,

yielding a fainter scent. …”

“Denn wir, wo wir hühlen, verflüchtigen; ach wir

atmen uns aus und dahin; von Holzglut zu Holzglut

geben wir schwächern Geruch. …”

The line that Karin had recited to me in the dusty Albuquerque afternoon—“Who, if I cried, would hear me among the angelic orders?”—had imprinted a blurry, but irrefutable proof of what great art is: not a reiteration of the visible world, but the outpouring of a basic human need to make visible what is invisible.

The paintings I did in Milano that summer were the beginning of the Breathersseries. When I returned to New York City in the fall, I worked for the next year or so on that series—varying the sizes of the paintings and mediums, fighting with the materials, struggling with the physicalness of the paint itself and the frustrating particularness of the human form. I clearly remember the excruciating joy of disassembling and reassembling the physical form of a human being, again and again.

If I recall correctly, the Three Breathers (1987) was one of the last paintings I completed in that series. As in much of my work since, I wanted to leave it to the viewer to put the pieces of these paintings together—a communal act of making meaning—so that only in the eye and mind and soul of the viewer is the work ever really completed. So, for now, dear Giuseppe, the Three Breathers will only cohere in your living room, in your eyes and Annes, and the people you invite into your world—and that final act of alchemy gives me great joy because—“Still, though, alas![Und dennoch, weh, mir]—an incantation is just a jumble of words if no one is there to hear it.

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Rainer Maria Rilke, Die Erste Elegie

Wer, wenn ich schriee, hörte mich denn aus der Engel

Ordnungen? und gesetzt selbst, es nähme

einer mich plötzlich ans Herz: ich verginge von seinem

stärkeren Dasein. Denn das Schöne ist nichts

als des Schrecklichen Anfang, den wir noch grade ertragen,

und wir bewundern es so, weil es gelassen verschmäht,

uns zu zerstören. Ein jeder Engel ist schrecklich.

    Und so verhalt ich mich denn und verschlucke den Lockruf

dunkelen Schluchzens. Ach, wen vermögen

wir denn zu brauchen? Engel nicht, Menschen nicht,

und die findigen Tiere merken es schon,

daß wir nicht sehr verläßlich zu Haus sind

in der gedeuteten Welt.

“Who, if I cried, would hear me among the angelic
orders? And even if one of them suddenly
pressed me against his heart, I should fade in the strength of his
stronger existence. For Beautys nothing
but beginning of Terror were still just able to bear,
and why we adore it so is because it serenely
disdains to destroy us. Each single angel is terrible.

 Duino Elegies (translated from the German by J.B. Leishman and S. Spender)

 

Se pur gridassi, chi mi udrebbe dalle gerarchie

degli angeli? E se uno mi stringesse dimprovviso

al cuore, soccomberei per la sua troppo forte presenza.

Perché nulla è il bello, se non lemergenza

del tremendo: forse possiamo reggerlo ancora,

ed ammirarlo anche, perché indifferente

non degna distruggerci. Ognuno degli angeli è tremendo.

 da Elegie duinesi (introduzione, traduzione e commento di F. Rella).

In copertina: AM Hoch, Three Breathers (olio su tela, 1987)

L'autore

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Amy Hoch

Amy Hoch (AM Hoch, Amy Hotch) ha esposto i suoi dipinti e le sue installazioni in musei e gallerie di Stati Uniti e d’Europa. Nata a New York, vive a Bologna. La sua biografia completa è in amhoch.com/bio.