a cura di Serena Zaninetta

L’intervista verte sul tema dell’incidenza delle tematiche ambientali sull’approccio dei giovani al mondo del lavoro.

Sono note le sue iniziative e i suoi sforzi a favore della politica climatica internazionale. In passato questo suo percorso l’ha vista anche a fianco ad aziende (NextTerna, ecc) per promuovere una diversa cultura del business improntata su una prospettiva nella quale l’efficientamento energetico diventa un driver fondamentale per la sopravvivenza delle stesse organizzazioni.

Oggi noi con lei vorremmo affrontare le tematiche ambientali dal punto di vista dei giovani che popolano e popoleranno quelle realtà e del futuro del lavoro che si prospetta.

1-Che idea si è fatta delle aspettative dei giovani rispetto alla sensibilità e della concretezza delle aziende in merito a questi temi? Durante il percorso di studi ricevono informazioni sufficienti ad avere una idea compiuta? Riscontra differenze a livello europeo e italiano?

La mia percezione è che i giovani, soprattutto quelli interessati al tema ambientale – ma non solo, anche quelli interessati al sociale in generale – sono molto sensibili a tutto quello che riguarda il consumo critico, cioè alla comprensione dell’impatto che produce ogni loro scelta quotidiana. Personalmente leggo così questa interessante, e importante, apertura a realtà come per esempio i mercati dell’usato, gli scambi, e in generale tutto quello che riguarda modelli alternativi all’iper-capitalismo consumistico che invece caratterizza le nostre società in questo momento.

Un’attenzione che si trasforma anche in una caccia al greenwashing, per cercare di capire chi effettivamente fa le cose per bene e chi invece no.

Per quel che riguarda l’università, invece, credo che questi temi e questa sensibilità non siano penetrati abbastanza – fatte salve delle eccellenze, chiaramente. Manca ancora una piena consapevolezza della dimensione multidisciplinare che caratterizza queste tematiche. Una multidisciplinarità che, di fronte alla sfida epocale che stiamo fronteggiando, rende assolutamente necessarie tutte le competenze possibili e immaginabili, per dare a tutti gli strumenti più adatti a trattare una tematica che dovrebbe essere totalmente trasversale a tutte le facoltà.

In Europa ovviamente esistono realtà diverse, con Paesi come Germania e Francia che viaggiano ad altre velocità, essendo molto più evolute di noi da questo punto di vista – basta vedere quanto nel dibattito politico e mediatico nazionale il tema climatico sia presente. Ci sono poi Paesi come la Polonia che, al contrario, sono rimasti molto indietro. È chiaro, secondo me, che in alcuni contesti il tema ambientale è penetrato maggiormente nella cultura del Paese, e in alcuni casi da molto più tempo che in altri contesti.

2-Cosa pensa del controverso fenomeno delle “grandi dimissioni” a livello europeo? E’ davvero causato dalla distanza sui valori ambientali che i giovani lavoratori riscontrano una volta entrati all’interno del mondo del lavoro (multinazionali in particolare) o, come dicono in molti (soprattutto senior manager aziendali), è un semplice shift di lavoratori causato da una molteplicità di fattori dei quali i valori ambientali non sono neppure prioritari?

Non conosco statistiche aggiornate e complete, ma ho la sensazione, avendo lavorato per vent’anni nel settore aziendale e nella consulenza per le aziende, che nelle fasce più giovani della popolazione ci sia oggi, soprattutto dopo il Covid, un’elevata sensibilità per tutto quello che riguarda in generale la qualità della vita. Viene attribuito un enorme valore a cose come la possibilità di mantenere i propri interessi, le proprie relazioni e i propri tempi e al fatto che non vengano divorate dal lavoro, come invece la nostra generazione è stata educata a credere normale.

Per alcuni poi, come diceva lei, si pone sicuramente anche il tema della coerenza dei propri principi con il lavoro al quale si prestano gran parte delle proprie energie. Potremmo definirla una questione di “vocazione”, forse: immagino che quando capisci da che parte della storia vuoi stare, dedicare gran parte del tuo tempo a qualcosa che va contro a ciò che speri, e a cui credi, e per cui vorresti invece essere proattivo, diventi un forte fattore di disagio.

3-Recentemente in Francia si è sviluppato il movimento dei “bifocartori”, studenti di facoltà tecniche che rifiutano la proclamazione alla laurea perché sostengono che le facoltà li formino per lavorare in aziende nocive all’ambiente. Perché in Italia sembriamo sempre essere un passo indietro rispetto a talune prese di posizione su temi fondamentali?

Onestamente non credo che manchino le competenze, né le visioni, né le posizioni coraggiose. Mi vengono subito in mente i ragazzi di Ultima Generazione, che mettono a repentaglio il loro futuro per la causa in cui credono – dal momento che oggi abbiamo anche un serio problema con il diritto di manifestazione che si lega all’adozione del Ddl Sicurezza.

Non penso si tratti tanto di una mancanza di “eccellenze” quanto di una generalizzata arretratezza culturale. Purtroppo, siamo un Paese che – ce lo dicono i dati – sta retrocedendo sui livelli di qualità della scolarizzazione e crescendo su quelli dell’analfabetismo funzionale, cioè aumenta la nostra incapacità di analizzare la complessità. Questo è un tema che ovviamente ha molto a che fare con la questione ambientale, e vi è strettamente legato perché questa incapacità analitica ci espone alle prese in giro di chi la realtà la semplifica per manipolarla, ovviamente remando contro ogni genere di cambiamento. Ma contrastare la crisi climatica significa mettere in piedi una rivoluzione, è -se vogliamo – l’anti-conservazione per antonomasia.

Il problema cui ci troviamo di fronte oggi non è tanto l’assenza di pensiero ambizioso, quanto la difficoltà di costruire collettività più forti, più determinate, più radicali su questi temi, proprio per via di questa generale arretratezza culturale.

4-Lei è una di quelle persone che pensa che se i giovani desiderano davvero contribuire in maniera positiva all’ambiente e alla sostenibilità devono farlo con iniziative imprenditoriali autonome o start up o crede che ci sia reale speranza di trade-off tra profitto e sostenibilità nelle grosse corporation? E lei a un giovane particolarmente sensibile a certi valori che strada consiglierebbe di intraprendere oggi?

Serve tutto. Servono ditte individuali, piccole e grandi startup, piccole e medie imprese, grandi imprese, istituzioni, enti locali, ONG e terzo settore. Qui serve tutto, assolutamente tutto.

Tutti questi ambiti vanno rivoluzionati nella chiave della transizione ambientale e sociale – e quindi anche digitale, ovviamente. Oggi abbiamo bisogno di una rivoluzione a trecentosessanta gradi.

Non è neanche una questione categorizzabile a compartimenti stagni: ho visto grandi aziende intraprendere percorsi ambiziosi e rivoluzionari e piccole aziende ragionare come si faceva nel ‘900. Credo che ognuno debba seguire i propri talenti, la propria vocazione e passione, anche perché come dicevo prima le competenze che servono sono totalmente traversali, e dato che la cosa che ognuno di noi fa meglio è quella che più gli piace, se tutti i settori coinvolti applicassero questo principio potremmo davvero fare incredibili passi avanti.

Quindi, per rispondere alla domanda su quale sia la strada “migliore” da intraprendere, non credo ce ne sia una. Anche perché il mondo delle startup e dell’innovazione, così come quello dell’imprenditoria, necessitano di alcune caratteristiche che non tutti posseggono e che non sarebbe neanche giusto pretendere da tutti. Piuttosto, cambiare dall’interno un gigante, spingerlo a fare un passo nella direzione giusta, è importante tanto quanto creare mille piccole realtà – su questo sono molto laica.

Ora, è chiaro che le transizioni di cui stiamo parlando – quella green ma anche quella digitale – necessitano tantissimo di competenze tecniche. Che non vuol dire solo ingegneristiche: vuol dire anche architettoniche, digitali, informatiche, dell’automazione e della meccatronica, dell’IA, degli algoritmi e della comunicazione. Tutto questo mondo ha subito un enorme impulso, basti pensare ai progressi fatti in ambito biotecnologico e di economia circolare. Abbiamo davanti un enorme potenziale di innovazione, e le materie scientifiche ovviamente sono quelle che più facilmente troveranno un’applicazione professionale in questo processo.

Credo sia doveroso includere espressamente le ragazze in questo discorso: dobbiamo assolutamente tenerle in considerazione quando parliamo di questi temi, dato che tra i vari indici di arretratezza che vantiamo in Italia contiamo anche quello sul numero di donne che intraprendono carriere STEM – numeri che si spiegano esclusivamente con motivi di arretratezza culturale.

Detto questo servono avvocati, commercialisti, servono giardinieri e manutentori, operai specializzati – serve veramente tutto, e per questo sarebbe importante che tutti avessero la possibilità di acquisire competenze specifiche per illuminare, per così dire, qualsiasi tipo di lavoro con questo approccio ecologista.

5-Cosa sta facendo oggi l’Europa per il futuro sostenibile del lavoro (e per il futuro matching tra domanda e offerta che tenga in considerazione questi aspetti) e perché in Italia attualmente l’agenda politica sembra non considerarlo affatto una priorità ma una questione di immagine?

Quello che è avvenuto in Italia negli ultimi anni dipende in larga parte dalle scelte ambiziose che sono state fatte in Europa, almeno da un punto di vista ambientale, e non oso immaginare a che punto saremmo se così non fosse stato – cioè se non avessimo obblighi, target e ambizioni che ci arrivano dall’Europa. È un discorso che vale per tante altre cose, a partire dai programmi sull’innovazione e la ricerca: l’Europa ha fatto e sta facendo moltissimo.

Oggi stiamo cercando di alzare l’ambizione del nuovo budget europeo, anche per arginare questo inquietante spostamento verso il mondo della difesa e la corsa agli armamenti. È chiaro che ci troviamo in un momento molto delicato, e che un discorso sulla difesa comune sia importantissimo, ma a mio avviso bisognerebbe sempre ragionare prima su una politica estera comune. In ogni caso, anche per sostenere la nostra capacità di disinnescare i conflitti, l’investimento sulla difesa non può e non deve distrarre dall’ambizione e dalla centralità del Green Deal e della trasformazione delle nostre economie e società. Un cambiamento che passa per investimenti importanti sulla formazione e sulla ricerca, sull’innovazione, e che serve anche a ridare un ruolo centrale all’Europa e agli Stati membri nell’ambito della competizione industriale internazionale, nella quale siamo oggi indietro rispetto a Cina e Stati Uniti.

In Italia, come dicevo prima, il problema è soprattutto culturale. In questo momento storico in particolare abbiamo un Governo dalle posizioni molto arretrate, se non negazioniste, sulla crisi climatica, con esponenti che sostengono tesi totalmente antiscientifiche e che addirittura propongono come soluzione tecnologie che non esistono, come la fusione nucleare, piuttosto che parlare di transizione. Una strategia che serve a mantenere lo status quo, e quindi l’arricchimento dei soliti soggetti che si occupano di idrocarburi, di gas in particolare. Un meccanismo che fa sì che non si investa in questo futuro, che in realtà è già presente, perché semplicemente si è vicini a chi trae vantaggio dal modello attuale, anche se questo danneggia la collettività.

L'autore

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Serena Zaninetta

Direttore Operativo e HR Director, dopo la laurea in Giurisprudenza e un master in gestione aziendale, inizia a lavorare nel 2000 in ambito risorse umane. Dal 2005 ricopre incarichi di crescente responsabilità nella consulenza organizzativa e HR in contesti nazionali e multinazionali. Dopo diversi corsi di specializzazione e master, inseguendo la passione per le nuove generazioni, l’innovazione e l’ambiente, torna a frequentare l’università conseguendo la Laurea in Comunicazione e Media nel 2022 per iscriversi immediatamente alla specialistica in Giornalismo Ambientale.
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