Intervista a Michela Wrong, a cura di Pierrick Hamon

Michela Wrong è una celebre giornalista d’inchiesta britannica, specialista di questioni africane. Ha prima lavorato in Europa, poi in Africa occidentale, centrale e infine orientale, per la Reuters, la BBC e il Financial Times. È consulente della Fondazione Miles Morland, un’organizzazione che sostiene attivamente gli scrittori e i progetti letterari africani. Vive a Londra. Viene regolarmente intervistata da BBC, Al Jazeera e Reuters, e in Francia più di recente dal Figaro. Ha pubblicato numerosi articoli su Observer, Guardian, Financial Times, New York Times, Foreign Policy. Parla correntemente italiano e francese. Michela ha appena pubblicato “Assassins sans frontières”, citato come uno dei migliori libri dell’anno dal Financial Times e dall’Economist: “un’inchiesta giornalistica che costituisce un’immersione sensazionale e drammatica nella storia moderna del Ruanda, paese devastato da uno die più grandi genocidi del XX secolo”. Ha anche di recente pubblicato: “La chute du léopard: sur les traces de Mobutu”.

Assassins sans frontières di Michela Wrong è stato apprezzato dal Financial Times e dall’Economist come uno dei migliori libri d’inchiesta dell’anno. Secondo questa celebre giornalista britannica, i social media hanno messo i media tradizionali sotto una terribile pressione. “È imbarazzante vedere giornalisti, universitari e intellettuali diventare i nuovi censori della nostra epoca. Il livello di viltà morale e intellettuale lascia senza fiato”. E questo non si limita solo al Ruanda.

H. Nei media occidentali, in particolare quelli francesi, è diventato quasi impossibile criticare il Ruanda senza essere immediatamente accusati di negazionismo. Molti giornalisti, di ritorno da un rapido viaggio a Kigali – ma non nel resto del paese – si spingono fino a presentare il Ruanda di Kagame come la Svizzera dell’Africa, un paese “molto pulito”… ma ci sono più omicidi di artisti e giornalisti in Ruanda che in qualunque altro posto. Questa “negligenza” è una particolarità della stampa francese e belga? E che dire, ad esempio, della Gran Bretagna, degli USA, del Canada?

Michela Wrong. Si possono vedere circolare dei preconcetti e stereotipi simili anche nei media anglofoni. Trovo molto interessante l’enfasi su quanto il Ruanda di Kagame sia in perfetto ordine e soprattutto pulito (!), perché rivela cosa dell’Africa risulta terrificante e repellente per gli Occidentali: il rumore, il disordine, la sporcizia.

Ma esiste tuttavia una grandissima differenza tra la copertura mediatica del Ruanda nel mondo francofono rispetto a quello anglofono. Nel mondo francofono è molto chiaro che i commentatori si sentono personalmente coinvolti.

Per i belgi si tratta della loro storia coloniale.

Per i francesi, si tratta delle relazioni del Presidente Mitterrand col Presidente Juvénal Habyarimana, dell’operazione Tourquoise e dell’asilo concesso ad alcuni tra i maggiori genocidi ruandesi che sono scappati.

Questi commentatori sono talmente presi dalla questione di sapere se si debbono giustificare, scusare o flagellarsi per quello che i loro governi hanno fatto, che non sono in grado di valutare Paul Kagame con la minima obiettività.

Si tratta di una forma di narcisismo estremo e di un razzismo sotto traccia. Non si interessano delle violazioni dei diritti umani di un governante autoritario, perché si interessano, in ultima analisi, solo di loro stessi.

H. Come interpretare il relativo silenzio dell’organizzazione non governativa RSF (Reporters Sans Frontières), generalmente più esigente in materia di libertà di stampa?

Michela Wrong. Guardando il web site di RSF, si vede chiaramente che dispone di una buona e approfondita copertura di alcuni paesi africani, ma la sua copertura di altri, dove sappiamo che c’è poca libertà di parola, è molto lacunosa. Il Ruanda sembra essere uno di questi. Può darsi sia un problema di risorse umane o materiali.

Human Rights Watch è il gruppo che difende i diritti umani da consultare sul Ruanda. Il suo lavoro si basa su ottime ricerche, verificate con molta accuratezza. C’è una ragione per cui tanti dirigenti ruandesi si scagliano contro HRW su Twitter: fa un ottimo lavoro e chiede conto e ragione a Kigali.

H. La rivista Marianne ha recentemente notato che il professionismo mediatico lascia gradualmente il posto al militantismo, spesso in nome dei valori morali democratici, solo per fare rumore sui social media.

Ecco un aneddoto rivelatore, che ha scandalizzato i media africani.

A conclusione della conferenza stampa congiunta dei Presidenti Tshisekedi e Macron, a Kinshasa, fu chiesto a due giornalisti della Repubblica Democratica del Congo e a due francesi di fare una domanda. Mentre i giornalisti congolesi fecero riferimento alla visita del Presidente francese, la giornalista di France2-TV si rivolse al Presidente Macron solo per chiedergli cosa pensasse della situazione… in Francia, mostrando così un disprezzo che fece scalpore in Africa, ma non in Francia!

Michela Wrong. I social media sono così onnipresenti e talmente rapidi che hanno messo i media tradizionali sotto una terribile pressione. Gli organi di stampa classici, messi di fronte al fatto che il pubblico non fa più affidamento su di loro per avere le notizie, hanno dovuto muoversi in due direzioni: o forniscono opinioni – cosa a buon mercato e facile  — oppure approfondiscono e offrono analisi originali. Ovviamente è più agevole la prima opzione.

L’incidente che tu descrivi a Kinshasa non mi sorprende affatto. Un giornalista mostrerà a un leader straniero lo stesso livello di rispetto che hanno i funzionari che fanno i briefings. Non penso che il comportamento della Francia nei confronti dei dirigenti congolesi negli ultimi anni sia stato caratterizzato da un enorme rispetto.

 H. Michela Wrong, come spiegare questa omertà, questa spietata censura che viene più dai media che dai governi? Come spiegare che alcune personalità particolarmente influenti nei media francesi possano imporre così delle visioni sommarie in nome di una colpevolizzazione derivante dal genocidio del 1994?

Michela Wrong. In ogni società si forma spesso un consenso politico, basato sulle opinioni del governo in carica, degli uomini d’affari, degli editori di giornali, delle personalità dei media e dei professori universitari. 

Il problema è che quando si tratta di un argomento come la guerra della Russia in Ucraina, molti commentatori contribuiscono a formulare questo “senso comune”: c’è un gran numero di persone che sono molto ben informate in materia. Ma quando si tratta di un piccolo paese africano, che la maggior parte della gente non ha mai visitato, il numero di persone che contribuiscono alla formulazione di questo “senso comune” è incredibilmente minuscolo. È spaventoso, perché questo consenso sostiene attualmente la politica estera francese nella regione die Grandi Laghi ed è corresponsabile – dato il sostegno del Ruanda al gruppo ribelle M23 – di moltissimi morti sul terreno.

Ma c’è un punto positivo in questo scenario. Poiché pochissimi attori sono implicati, il consenso può cambiare molto rapidamente. Ed è quello che accadrà con il Ruanda.

Io prevedo che i ceti medi riflessivi (le “chattering classes”) francesi scopriranno all’improvviso un giorno che Kagame è – ed è sempre stato – un dittatore con una politica spaventosa in materia di diritti umani, un avventuriero militare, responsabile di pulizia etnica, che merita di essere giudicato dalla Corte Penale Internazionale.

E allora tutti pretenderanno di avere sempre pensato questo.

 H. C’è un fatto ancora più grave: come spiegare l’utilizzazione della censura da parte degli organizzatori del “Prix Bayeux Calvados des Corréspondants de guerre”, creato e organizzato in partnership con diversi organi di stampa? I suoi colleghi Jusi Rever e Déo Namujimbo sono stati cosìimpediti di parlare, all’ultimo momento…

Michela Wrong. Negli ultimi anni è stato imbarazzante vedere i giornalisti, gli accademici e gli intellettuali – proprio quelli che dovrebbero credere in un dibattito aperto e in una discussione coraggiosa – diventare i nuovi censori, inquisitori della nostra epoca.

Questo fatto non si limita certo al Ruanda, ma lo abbiamo visto operare in tutta una serie di problematiche, dal colonialismo alla questione dei transessuali.

È un virus, che si è introdotto in Europa a partire dagli Stati Uniti, dove ha sempre prevalso una certa forma di autocompiacimento puritano. Quello che è triste è vedere gli intellettuali europei seguire la stessa strada senza fare domande.

Il livello di viltà morale e intellettuale lascia senza fiato. Questo dimostra che la battaglia per la libertà  di pensiero e di espressione non finisce mai, che ha sempre bisogno di essere alimentata. Ma ho la sensazione che cominciamo forse a vedere la fine di questo fenomeno.

La gente ne ha abbastanza di farsi fare la predica su quello che si può o non si può dire, o addirittura pensare, da parte di istituzioni che una volta erano dei bastioni della libertà d’espressione.

Mi consolo al pensiero che la storia giudicherà severamente queste persone. Nel caso del Ruanda e di Paul Kagame, gli storici e i giornalisti che l’hanno salutato come una sorta di eroe napoleonico, con le mani pulite e una visione messianica, saranno considerati proprio come quegli intellettuali di sinistra che sostenevano che non ci fossero i gulag nella Russia di Stalin, e che sono oggi ritenuti dei patetici apologeti della dittatura.

(https://www.i-dialogos.com/analyses/les-m%C3%A9dias-en-question-%C3%A0-propos-du-rwanda-michela-wrong)

L'autore

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Pierrick Hamon

Pierrick Hamon è Delegato Generale e Co-fondatore di I-Dialogos, Parigi. Ex segretario generale del Global Local Forum, ex Segretario generale aggiunto della Commission Nationale de la Coopération Décentralisée del Ministero degli Esteri francese. Vive a Montreuil.