La scuola è nel dibattito pubblico e nelle aule parlamentari la grande assente, fatti salvi eclatanti fatti di cronaca e i decreti per i tagli alla spesa. In questi casi, i primi vivono la gloria mediatica di un paio di giorni e i secondi il silenzio-assenso della maggioranza dei dirigenti scolatici e dei docenti. Si consideri pure la debole rivendicazione sindacale, focalizzata generalmente sugli irrisori aumenti salariali, piuttosto che sui cambiamenti strutturali della scuola, attesi già con l’autonomia scolastica dal lontano 1999.

Dopo quindici anni di incertezze attuative che hanno lasciato irrisolte le tre macro-criticità della scuola: la dispersione scolastica, i bassi livelli di apprendimento degli studenti (come emerge dalle rilevazioni nazionali e internazionali), i ritardi nei cambiamenti strutturali, la legge di riforma 107 del 2015 aveva provato a portare la scuola al centro dei processi di innovazione della società, creando le condizioni di fattibilità per un’autentica autonomia progettuale e di gestione. L’autonomia capace di rispondere alle specificità territoriali e di dialogare con soggetti e altre istituzioni in una visione di sistema educativo integrato, per garantire “di fatto” il diritto allo studio.

La riforma che voleva una rottura con il perdurante paternalismo ministeriale nei rapporti tra centro e periferie è invece rientrata nelle abuliche attese delle “note di chiarimento” che seguono l’emanazione di ogni decreto, rifluita nelle sterili lagnanze sulla subalternità della scuola rispetto alle altre agenzie educative, diventata ostaggio di algoritmi ciechi per l’assegnazione dei docenti alle scuole da parte degli uffici scolastici territoriali, perché la cosiddetta “chiamata diretta” dei docenti è stata considerata fonte di privilegi e arbitri da parte dei dirigenti scolastici. Gli stessi che in maggioranza hanno osteggiato la riforma.

Come si sa, ogni controriforma genera dure restaurazioni, così la scuola è rifluita nelle routine amministrative, non certo adatte per rispondere alle istanze di cambiamenti strutturali e soprattutto culturali che il Pnrr oggi prospetta con significativi investimenti, mentre su altro fronte si agita lo spettro dell’autonomia differenziata, che renderà ancora più deboli proprio le scuole con scarsa capacità progettuale e di gestione. Per queste ultime, specialmente, l’adempimento burocratico, inteso come atto amministrativo decontestualizzato dalla visione più ampia di sistema, è il modo di pensare la gestione della scuola, al posto della gestione come processo di ricerca, di scelte e di responsabilità condivise.

Occorre dunque ripartire dalla capacità di fare sistema tra i centri di elaborazione delle politiche scolastiche ed erogare il servizio di educazione e formazione in maniera funzionale alla qualità degli apprendimenti, fuori dalle logiche competitive di matrice liberista con cui l’autonomia scolastica è stata letta da taluni, che ne hanno inficiato dagli esordi e a seguire una serena e autentica attuazione. Tali logiche, a parere di chi scrive, sono estranee alle intenzioni del legislatore incline, invece, a prospettare l’autonomia scolastica come capacità di caratterizzare l’offerta formativa su solide basi culturali e scientifiche rispondenti alla domanda locale di formazione, fermo restante, per ragioni di equità, l’orizzonte dei traguardi di competenze su tutto il territorio nazionale.

Su questa capacità deve agire una dirigenza scolastica competente, di cui occorre ripensare le forme di reclutamento, con scuole di formazione della cultura giuridica e amministrativa per garantire il buon andamento della scuola pubblica. Non secondaria è la definizione dei requisiti di accesso, che dovrebbe configurare un alto profilo culturale del dirigente scolastico, con l’ampliamento dei titoli di accesso alle pubblicazioni e alle esperienze di impegno civile e sociale. Futuristica, ma certamente utile, sarebbe anche la rilevazione delle competenze trasversali all’attività dirigenziale, prima fra tutte la competenza comunicativa e di coordinamento in sistemi complessi, quali sono i gruppi di lavoro, le relazioni interistituzionali, la comunità educante.

Una riforma che dia piena attuazione al processo di realizzazione dell’autonomia scolastica non è più derogabile di fronte alle odierne responsabilità della scuola di promuovere la conoscenza come presidio di democrazia e di costituirsi come civic center sui territori, in cui promuovere le competenze degli studenti a vivere e a con-vivere in comunità sempre più allargate e plurali.

In copertina: Momento di progettazione nella scuola di Sandra Renzi

L'autore

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Sandra Renzi

È laureata in Sociologia ed è master di Programmazione Neurolinguistica. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in “Linguaggi, culture e politiche della comunicazione” presso l’Università degli Studi di Teramo ed è attualmente dirigente scolastica.

Ha svolto attività di ricerca e di sperimentazione nella scuola dell’infanzia ed è stata supervisore del tirocinio presso la Facoltà di Scienze della Formazione primaria di L’Aquila e docente incaricata di Metodologia e didattica generale (Università di Macerata), di Laboratorio di Pedagogia Speciale (Università di Chieti-Pescara) e di Laboratorio di scrittura (Università di Teramo).

Ha pubblicato saggi e articoli in riviste di progettazione formativa. Svolge attività di formazione e di consulenza per i docenti, anche presso il Centro di Lingua e Cultura italiana di Toronto.