Susanna Turco (con Elly Schlein), L’imprevista. Un’altra visione del futuro, Feltrinelli, Milano 2024, pp. 240.
Una biografia di Elly Schlein, allo stato dei fatti, potrebbe sembrare eccessiva o prematura. Le biografie di persone ancora giovani, ancora del tutto immerse in un percorso incompiuto e aperto ai più svariati sviluppi, sono un rischio notevole. Questi ultimi anni, inoltre, hanno visto tutto un fiorire di improbabili biografie o autobiografie di politici di ogni risma, con non poche cadute nel ridicolo involontario.
Non direi che sia questo il caso, però. Il libro è sobrio ed equilibrato, non manca di un salutare pudore, evita con cura i personalismi. Non è la storia di una personalità politica all’inizio di una carriera che potrebbe essere tanto molto lunga quanto molto breve e i cui sviluppi non sono seriamente prevedibili, ma la presentazione di una proposta politica, indubbiamente coraggiosa, innovativa e, al momento, vincente. Parte, forse decisiva, di un percorso molto lungo, decisamente non lineare, sofferto, non di rado autodistruttivo, che è la storia di una metamorfosi politica, la storia del cambiamento della sinistra in Italia.
I partiti politici sono organizzazioni identitarie, e senza una riflessione su cos’è l’identità in politica non è possibile comprenderne la natura e la funzione. Identità, in politica (e forse anche in altro, ma è la politica che c’interessa qui), non è la tautologia, l’essere uguali a sé stessi, il restare fermi in ciò che si è o si crede di essere. È la capacità di continuare a riconoscersi, nei cambiamenti storici, in quanto comunità: il restare comunità nel proprio stesso mutare, il percepirsi e riconoscersi in un percorso storico che si attraversa e da cui si è attraversati. Il sapersi dire chi si è anche se non si può mai essere la stessa cosa, il sapersi riconoscere nel proprio mutare. Non è facile, non è automatico riuscirci, non tutti ci riescono, non tutti ci riescono a lungo. Bisogna capire che identità e crisi di identità sono quasi la stessa cosa. Tutto si può fare in politica tranne che rimanere fermi, tranne che ripetersi all’infinito. L’identità politica è la capacità di reggere il cambiamento. E questo, in un partito politico, richiede, mi pare, soprattutto due cose. La prima è sapere che partito si è, di chi si è il partito, quale parte o partizione della società si vuole raccogliere insieme: insomma, chi si rappresenta. La seconda è sapere, e saper dire, verso dove si va, come ci si orienta, qual è la meta politica. Tenendo conto di un fatto fondamentale: che la politica è irrazionale. Non irragionevole o antirazionale, non si tratta di un difetto o di un limite. C’è una bellissima definizione di politica attribuita a Tina Anselmi, forse la più bella possibile, che compare più volte nel testo e ne è forse la chiave: “organizzazione della speranza”. L’espressione è più complessa di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Se ci si riflette, è un ossimoro, equivale, più o meno, a “determinazione dell’indeterminabile”. Ma questa non è un’assurdità, è un programma. La speranza resta nel vago, resta impalpabile e destinata a dissolversi presto, se appunto non la si organizza, estraendone per così dire pezzi di futuro reso concreto, reso attuale, trasformato in qualcosa che è lì e fa una differenza: amministrazioni comunali, provinciali, regionali conquistate, elezioni vinte, proposte di legge portate all’approvazione, atti di governo che cambiano le cose e che consentono di continuare a percepire, nel futuro indeterminato, una direzione, un senso possibile. Senza produzione di risultati concreti non c’è speranza, ma i risultati concreti acquistano senso solo in un orizzonte continuo di speranza. Non bisogna avere paura di parole esigenti: ideale, sogno, utopia. Non bisogna avere paura della parola “mito”, e non bisogna fraintenderla. Un partito è fatto di rappresentanza politica e mito politico, altrimenti è solo un aggregato occasionale di interessi che potrà anche ottenere vittorie momentanee, ma non farà storia.
La sinistra italiana ha alle spalle un partito che ha avuto una chiara e forte capacità di rappresentanza e un grande mito politico: il Partito comunista, ovviamente. Un’identità forte che ha saputo resistere a tempi durissimi, ma non ha potuto reggere il completo mutamento dell’orizzonte storico. Ha dovuto cambiarsi giungendo al limite dell’autodistruzione, ed è l’unico partito della cosiddetta Prima Repubblica che ci sia riuscito. Pagando un prezzo caro: decenni, ormai, di disorientamento, di navigazione a vista, di mutamenti di rotta a volte pressocché casuali. Ha cambiato nome tante volte, e non è banale per un partito cambiare nome. Ha oscillato tra sinistra e centro, subendo a volte tentazioni decisamente destrorse. Non ha più saputo o potuto o voluto, a lungo, dire di chi era il partito, chi rappresentava. Ha avuto paura, in particolare, di dire di essere il partito dei lavoratori: non era credibile, non sarebbe stato creduto. Ha cercato altrove chi rappresentare, ottenendo anche dei successi innegabili. Ma essere il partito del 40% non basta se non si sa dove portarlo, quel 40%, e lo spazio dove si cercava di andare era ampiamente occupato. E dunque, nell’incertezza, nella paura di decidere, nella conflittualità interna esasperata, tutta una serie di pesanti cadute, quelle che vengono in mente a chiunque, quelle che purtroppo non si dimenticano: i 101 che affossano la candidatura, certamente vincente, di Romano Prodi; gli scimmiottamenti patetici di esperienze americane, che non creano consenso perché non hanno significato; la politica francamente di destra nei confronti del fenomeno migratorio, che non lesina finanziamenti e armamenti a conclamate bande criminali purché tengano lontani i migranti a qualunque costo (al costo di ucciderli cioè); il Jobs Act e l’abolizione fortemente e consapevolmente simbolica dell’art. 18, segno di una precisa volontà di non essere più il partito dei lavoratori. L’elenco, lo sappiamo bene, potrebbe continuare a lungo, e c’è da meravigliarsi che nonostante tutto esista ancora una realtà politica chiamata Pd.
Esiste ancora per vari motivi, non tutti ben chiari; uno che mi sembra chiaro è che, malgrado tutto, si tratta dell’unico partito che ha ancora un “popolo”, che non ha reso la propria dirigenza del tutto impermeabile e blindata rispetto alla società circostante, l’unico partito poroso, capace di assorbire pressioni e stimoli esterni, persino il dissenso esterno. Il meccanismo delle primarie è per certi versi paradossale, ma è ad esso che dobbiamo il fenomeno Schlein: il saldarsi cioè (per semplificare) della dissidenza interna, minoritaria, con una dissidenza molto più forte all’esterno, nell’area dei simpatizzanti non iscritti, dei votanti occasionali, dei movimenti di lotta e di protesta. Il fenomeno Schlein è la dissidenza che conquista il partito e gli fa una robusta iniezione di movimentismo. Riguardo a ciò, Elly Schlein, per personalità e biografia, è una sorta di simbolo vivente, avendo alle spalle tanto un percorso interno di tutto rispetto, con cariche politiche importanti a livello regionale ed europeo, quanto un’esperienza abbastanza lunga di impegno politico esterno, fortemente critico e contestativo nei riguardi del partito. Il libro insiste giustamente su questo aspetto, fondamentale per la comprensione di una nuova identità politica in costruzione.
“Noi non siamo nessuno, ma siamo inondati da messaggi di sostegno, da dentro e fuori il partito, da vecchi militanti delusi e inferociti, ma anche da moltissime persone fuori che non vedono l’ora di avere una buona ragione per votare il Pd. Dobbiamo rendere di nuovo questo posto una casa di tutti, siamo noi la sintesi”.
Spoiler: sono parole che risalgono al 7 luglio 2013, ma rappresentano il filo rosso da seguire per capire ciò che è accaduto nel decennio successivo, un anticipo dei motivi della candidatura e della vittoria alle primarie del 2023. Elly Schlein interviene a Reggio Emilia, al Politcamp, una delle manifestazioni convocate in quell’estate spartiacque, e spiega cosa è Occupy Pd, la protesta di cui in brevissimo tempo è diventata uno dei volti, portavoce, punti di riferimento.
Qualche settimana prima, all’esordio di quel movimento, aveva piazzato un altro paletto utile a orientarsi: “Siamo nativi democratici, io non sono una ex di niente, molti di noi non sono ex di niente, quello che dovrà cambiare sarà proprio abbandonare le logiche correntizie e decidere di stare tutti insieme”. I nativi democratici, non ex comunisti o ex popolari, sono come “biglie in una cesta, ormai indistinguibili”, che tengono insieme ciò che è dentro e ciò che è fuori, i vecchi militanti e chi magari non ha votato ancora Pd, o non lo vota più. […] è un cammino lungo il confine della disillusione, un lavoro minuto che Elly Schlein ha portato avanti da allora, senza smettere. Da esule semmai, a un certo punto, mai da straniera. Proprio come tanti elettori democratici. Tra l’impegno, la speranza e l’esasperazione (pp. 51-52).
Nella storia del Pd, le vittorie sono state a volte più pericolose delle sconfitte. Nel periodo renziano, in particolare. Le vittorie vengono fraintese, vengono interpretate come segno di un crescente consenso moderato, fanno nascere l’illusione che bisogni spostarsi al centro, intercettare l’elettorato del berlusconismo in crisi e per questo si debba chiudere nettamente a sinistra. Ed è così che si tagliano le radici e si rischia di morire.
Il racconto che Elly Schlein fa degli ultimi dieci anni è la storia di una frattura scomposta e molteplice. Con gli universi di riferimento del Pd, della sinistra. Il mondo del lavoro, il mondo della scuola, gli operai, gli insegnanti, l’accoglienza, il volontariato. Quelli che, per dirla con Pier Luigi Bersani, sono “scappati nel bosco” e che, come ha aggiunto una volta, “abbiamo preso a schiaffoni, con l’intenzione esplicita di tagliare le radici di sinistra del Pd, farne una specie di Forza Italia dei tempi nuovi, e allora quel passaggio è dura disperderlo” (p. 95).
È il momento in cui non solo tanta parte degli elettori, ma anche una parte del gruppo dirigente, tra cui la stessa Schlein, abbandonano il partito. Per poi tornarvi e riprenderlo in mano nel momento del crollo elettorale, quando sembra che il partito rischi seriamente l’insignificanza, se non l’estinzione. È questo che distingue la segreteria di Elly Schlein dalle molte (anche troppe) che l’hanno preceduta. Con Elly Schlein, come si è visto, prende il potere nel partito un’inedita coalizione di contestatori interni-esterni, i critici del partito prendono la guida del partito, la critica diviene autocritica e si trasforma (inizia a trasformarsi) in linea politica. Si sposta “la testa dell’elefante” (p. 127), si compie una “piccola-grande rivoluzione”, e “anche stavolta non ci hanno visto arrivare” (p. 141).
“Dire che non ci hanno visto arrivare rappresentava molto il sentimento di quel momento. Era una dedica a quelli che da dieci anni ci credono e con cui ho condiviso questo percorso e a quelli che si sono aggiunti per le primarie. È la loro motivazione che ha fatto la differenza: e il passaparola, più difficile da sondare. Sapevo che probabilmente avrei perso il congresso interno, e non mi stupivo dei sondaggi che mi davano venti punti sotto, non mi preoccupavo. Secondo i canoni tradizionali di come funziona il congresso, era normale che si desse per scontata una mia sconfitta. Ma mi sentivo che avrei vinto le primarie. Perché mi pareva che l’elettorato del Pd chiedesse discontinuità, più coerenza e più sinistra. Tra quelli che si sono mobilitati per le primarie c’erano tanti che avevano votato per noi anche nel 2022, ma anche tanti che non lo facevano più da tempo e dicevano: ‘Mi avete fatto tornare a votare’. Abbiamo intercettato la voglia di cambiamento della nostra gente” (p. 142).
Questo è l’inizio di una storia, non la sua conclusione. La conclusione probabilmente è lontana e sarebbe futile tentare di prevederla. Ma questo nuovo inizio è importante già in quanto tale, proprio perché è davvero nuovo. È un fatto politico di primaria importanza nella storia del paese, un passo verso la ricostituzione di una chiara identità politica e di un chiaro indirizzo politico in quello che è tornato ad essere il secondo partito nazionale e il primo partito dell’opposizione: un ruolo che sembrava aver perso per sempre.
Quale identità? Di sinistra, finalmente. Qui il cammino è ancora lungo e richiederebbe una riflessione profonda. Non c’è più, non c’è nel mondo, un pensiero forte che si possa dire “di sinistra” con la stessa chiarezza e sicurezza con cui lo si faceva un tempo. Resta qualcosa del comunismo? Hanno ancora un senso espressioni come “socialista” o “socialdemocratico”? Si può essere “di sinistra” essendo qualcosa di diverso che dei liberal nel senso americano? C’è ancora un posto specifico, nella sinistra, per il pensiero sociale cattolico, che non ha più una rappresentanza politica seria ma in questo momento storico si colloca, per la prima volta con questa chiarezza, proprio al vertice della Chiesa? Quale delicato equilibrio si può ricostituire tra i diritti individuali, gli unici sensati secondo il pensiero mainstream, e quei diritti sociali di cui si è addirittura messa in dubbio l’esistenza? E come contrastare l’immagine, caricaturale ma come tutte le caricature con un fondamento di verità, di una “sinistra al caviale” in cui l’essere a sinistra è solo una forma del bon ton? Sono domande dure e difficili, richiederebbero un tempo di riflessione che non abbiamo. Dovremo pensarci, ma intanto c’è un punto d’appoggio concreto: riscoprire il cuore della politica e della democrazia, ricominciare da lì, dall’impegno a organizzare la speranza, a riportare in politica la passione.
“Sbaglia chi pensa che con il Novecento delle ideologie si siano esaurite anche le passioni. Sono mutate le domande, le forme di aggregazione, ma non cambia la scintilla da cui nasce la politica, il sentimento di ribellione verso le ingiustizie, l’aspirazione a migliorare la realtà, a non rassegnarsi, a lottare per l’emancipazione, il lavoro, i diritti, la solidarietà. È l’idea di restituire dignità e credibilità alla politica, di riscoprirne la bellezza, il suo essere lo strumento più alto e più nobile per cambiare in meglio la vita delle persone e del pianeta.
Negli ultimi anni si è spezzato quel nesso, si sono separate le riforme dalla speranza. Dobbiamo ricucire quello strappo immergendoci nella società. Con uno sguardo largo, curioso, e lungo, verso i prossimi venti anni. Con il desiderio di partecipare al cambiamento” (p. 218).
Qui si vede bene la natura di questo libro, che non è una biografia quanto meno prematura e meno che mai un’agiografia, di cui proprio non si avvertirebbe la necessità. Questo libro è un manifesto. La presentazione convinta e impegnata di un programma, di un indirizzo, di un orizzonte di lotta e di speranza. È il tentativo di richiamare a raccolta una comunità che possa riconoscervisi, che possa far propria quella direzione, quel senso, quel mito, e incamminarvisi.
Intanto, la storia procede veloce, e il libro, uscito a settembre, ne manca inevitabilmente gli sviluppi più recenti. Nel frattempo ci sono state altre tre elezioni regionali, una perduta per un soffio dal centrosinistra, ma stravinta dal Pd, le altre due vinte da pur fragili coalizioni di cui il Pd è stato il perno. Se ne approssimano altre, e sarebbe alla portata la riconquista di tutte quelle che erano un tempo le “regioni rosse”. E si approssimano, soprattutto, i referendum. Il vero problema sarà superare il quorum, nel qual caso la vittoria sarebbe assai probabile se non certa. Sarebbe un passo decisivo, che inciderebbe parecchio sulla tenuta del governo. Inutile nascondersi che un risultato diverso potrebbe invece rimettere in discussione il rinnovamento in atto del Pd e forse la stessa segreteria Schlein. La storia è lunga, molto deve ancora accadere, nulla è predeterminato. Qualcosa però è già accaduto nella storia della sinistra italiana, qualcosa che non accadeva da tempo, anzi sotto diversi profili qualcosa che accade per la prima volta. Non è poco, è abbastanza per andare avanti.