2. Universalismi e imperi
di Paul Ghils, raccolti da Pierrick Hamon
H. Dicevamo del progetto cosmopolitico dell’età moderna. Il cosmopolitismo è un sogno umanistico, ma è spesso concretamente legato alla creazione degli imperi.
G. In campo internazionale, la Società delle Nazioni e poi l’ONU hanno costruito un ordinamento giuridico sovranazionale, tra l’estrema diversità di diritti nazionali, degli usi e costumi comunitari e la messa in comune di un diritto internazionale embrionale, che copriva solo un piccolo numero di stati. Parallelamente, gli attori non governativi inter- o transnazionali riprendono l’antica idea delle associazioni cooperative che, partendo dalle leghe urbane e dagli ordini religiosi medievali, si sono trasformate nelle Organizzazioni Internazionali Non Governative (OING), 75 volte più numerose che ai tempi della SdN, mentre le Organizzazioni Internazionali Governative sono ‘solo’ 10 volte di più. Ciononostante, le Nazioni Unite accordano solo uno status consultivo non obbligatorio (Art. 71 della Carta) a un certo numero di ONG (un migliaio circa), mentre le OIG sono sottoposte all’approvazione degli stati membri.
Si noterà tuttavia l’eccezione importante del Comitato Internazionale della Croce Rossa (che è non governativo), a cui le Nazioni unite hanno concesso lo status di osservatore, tradizionalmente riservato agli stati. L’eccezione è relativa tuttavia al livello simbolico, perché il simbolo della mezzaluna contraddice il segno presentato come universale della croce rosa, che non si riferisce alla religione ma alla bandiera svizzera con i colori rovesciati (croce rossa su fondo bianco invece che bianca su fondo rosso), il cui simbolismo è più antico del cristianesimo. L’Impero ottomano dette un’interpretazione riduttiva a questo simbolo, come segno religioso, giustapponendole la mezzaluna, presto seguita da altri loghi, come il leone e il sole rosso dei Persiani e altri rifiutati, salvo il cristallo rosso per i paesi come Israele, che non accettano né la croce né la mezzaluna.
I diversi aspetti della globalizzazione (politica, economica, culturale, giuridica o istituzionale) non sono più favorevoli al cosmopolitismo. Ogni dominazione imperiale si presenta volentieri come universale, come sede dell’ordine contrapposto al caos, in senso ideologico o come estensione spaziale. Gli imperi azteco, cinese, islamico o romano sono altrettanti centri del mondo, isolati, senza rivali diversi dai clan e tribù ai confini. Questi due universi, quello detto civilizzato da un lato e barbaro dall’altro, contrastano fortemente per demografia, ricchezza, sedentarietà, nomadismo. Sul piano interno, l’impero padroneggia la coesistenza delle popolazioni che esso integra, mentre le molteplici comunità ai confini vi restano straniere, separate dal Times romano, dalla Muraglia Cinese o a uno spazio mobile, anche se i “barbari” sono reclutati spesso per difendere l’integrità dell’Impero (Martinez-Gros 2014 e 2022). In un secondo tempo, gli stati sovrani si affermano nei confronti degli imperi, benché costituiscano solo una “parentesi” rispetto ad essi (Grosser 1996).
Le regole di un sistema interstatuale si formano, tra sovranità e territorio, verso la fine del XVI secolo, parallelamente all’espansione europea del 1492, con la scoperta dell’America di Cristoforo Colombo e l’esplorazione delle coste africane. In un terzo momento, la globalizzazione diviene effettiva, benché parziale, dominata dallo sviluppo del commercio nel XIX secolo , per riprendere dopo la II Guerra Mondiale, fino alla situazione d’interdipendenza degli attori del sistema internazionale, all’interno del “mondo chiuso” di Dupuy (1989), i cui conflitti interni ed esterni non escludono una certa “de-globalizzazione”, che si distacca dai progetti mondialisti dell’ONU.
Si può intravvedere un quarto tempo nella frammentazione politica del mondo attuale, dovuto in parte alle critiche nei confronti della posizione dominante dll’Occidente sul piano idologico, culturale e istituzionale. Gli stati che ne prendono le distanze, in primo luogo la Cina, nutrono ambizioni altrettanto planetarie, ma prive dell’idea di tolleranza, di diversità culturale, di libertà delle comunità e degli individui, e della garanzia universale della giustizia mediante il diritto.
Quest’ultimo punto, che concerne la Cina, non sorprende se si sa che, secondo gli storici, lo Stato di diritto non vi ha prosperato e che viene oggi rigettato da un neoconfucianismo che rifiuta i sistemi occidentali e rinvia al ‘legismo’ del letterato Han Fei (28-233 a.C.), che si fonda sul concetto centrale di una “autorità mediante la legge” e ignora le nozioni di diritto individuale o di Stato di diritto, privilegiando l’interesse collettivo (Pedroletti 2017, Fairbank e Goldman 2014). In uno studio comparato ei sistemi giuridici, Patrick Glenn (2004, p. 320) conclude che “la tradizione asiatica non ha generato la nozione dei diritti individuali o diritti soggettivi. La trazione considera che la nozione di autonomia individuale, l’indifferenza rispetto gli altri, presuppone “idiozia” o “immoralità”.
La situazione attuale della Cina non riesce a mascherare le se secolari ambizioni imperial, che riprendono opportunamente la divisione sia ideologica che geografica tra il nord e il sud, che non può essere geopolitica se non assumendo la prospettiva di una Cina centro del mondo, né cosmopolitica, perché il suo universalismo si si definisce prima di tutto attraverso l’opposizione all’ordine occidentale ed europeo, detto settentrionale. Queste opposizioni possono sembrare riduttive, se si considera che non si può essenzializzare delle civiltà che devono trasformarsi senza rinunciare totalmente a delle tradizioni secolari, come dimostrato dall’orientamento ideologico degli intellettuali cinesi in esilio, la cui prima preoccupazione è stabilire un campo privato indipendente dallo stato. Essi si oppongono esplicitamente all’influenza pregnante di una memoria collettiva, che si rivela lunga in questo caso, simboleggiata soprattutto dal principio che “Tutto quello che è sotto il cielo universale, non è altro che il sole di Wang”, il tianxia del Libro delle Odi di Confucio, che è altrettanto monoculturale dei concetti di universale o di cosmopolitico in Occidente.
Anche il tradizionale universalismo dell’Islam ai oppone ad ogni etica cosmopolitica, perché è sottoposto alle norme religiose, come riconoscono le Dichiarazioni Islamiche dei diritti umani, prendendo le distanze dalla Dichiarazione Universale (DUDU) del 1948 ed altri strumenti giuridici del’ONU. Le dichiarazioni islamiche sottolineano la superiorità del diritto musulmano rispetto al diritto internazionale e sono il punto di riferimento dei 57 stati dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCI), tra cui la Turchia, erede di una tradizione laica, che approvò la Dichiarazione el Cairo del 990, non obbligatoria giuridicamente e non riconosciuta dalle Nazioni Unite, ma il cui significato è simbolico, in quanto fronteggia come contro-progetto islamico la DUDU.
L’OCI si riferisce soprattutto ai diritti e libertà della svaria, considerata come “l’unico punto di riferimento per la spiegazione o l’interpretazione di qualunque articolo” (art. 25). Questo non vuol dire, beninteso, che le altre religioni non interferiscano con il potere politico e la concezione del diritto. La concezione ebraica, o giudeo-musulmana della legge (se si considera la vicinanza delle due tradizioni), dice che la legge è fatta da Dio e che la Bibbia s’impone come un codice giuridico da seguire in ogni tempo e luogo (Deuteronomio 13:1, citato da Adeb 2007). Invocando questi versetti, Maimonide (1961, p. 97-98), il più grande teologo e filosofo ebraico, morto al Cairo nel 1204, scrive: “È una nozione chiaramente esplicitata nella legge che essa resta come obbligo eterno nei secoli dei secoli, senza dover subire alcuna variazione, limitazione o ampliamento”. Chi sostenesse il contrario dovrebbe essere, secondo Maimonide, “messo a morte per strangolamento”.
Quanto cristianesimo, i filosofi e gli storici associano tranquillamente politica e religione se si tratta di idee e istituzioni non occidentali, dimenticando quanto numerosi autori, scienziati e filosofi occidentali siano impregnati di religione. Così i lavori scientifici di Isaac Newton vanno compresi come influenzati alle sue convinzioni religiose e dal suo profondo interesse per il misticismo. Descartes spiega con argomenti matematici e con la relazione tra causa ed effetto l’esistenza di Dio, e fonda l’idea di Dio sul fato che “l’idea è in me”, perché, dice: “.. Dio esiste. Infatti solo una causa perfetta, Dio stesso, può essere l’origine di queso fatto perfetto, cioè l’idea di Dio” (p. 3).
Altrettanto significativa è la filosofia di Hegel, che culmina in una credenza interamente sottomessa al monoteismo, che genera una concezione del tempo dettata dall’idea di un progresso unilineare che porta al compito del spirito. il suo universalismo è strettamente monoculturale, in quanto pensa che “… è il destino fatale degli imperi asiatici di sottomettersi agli Europei, e anche la Cina si dovrà un giorno rassegnare a questo destino” (Lezioni sulla filosofia della storia, Vrin, 1946, p. 132), che il cristianesimo è il compimento supremo della filosofia. In questo spirito, gli Occidentali reclamarono nel XIX secolo l’esclusiva della filosofia, respingendo l’India o la Cina nel solo campo della religione, mentre l’India era, secondo Hegel, impregnata di religiosità e sprofondata nel “sogno”.
Le riflessioni di Amartya Sen (2004), secondo il quale la democrazia non è all’origine esclusivamente occidentale, riferendosi per contrasto al dibattito buddista, alla filosofia trasmessa da Rabindranath Tagore, all’apertura culturale dell’imperatore moghul Akbar, che regnò in India alla fine del XVI secolo, o ancora alla tradizione dialogica che caratterizza la tradizione filosofica sanscrita: ” Nella misura in cui la discussione pubblica ragionata è al cuore della democrazia (come hanno affermato John Stuart Mill, John Rawls, Jürgen Habermas e molti altri), le origini della democrazia possono in effetti essere rintracciate in parte nella tradizione della discussione pubblica, che è stata largamente incoraggiata dall’accento posto sul dialogo nel buddismo in India e in Cina (come pure in Giappone, in Corea ed altrove)”.
Da tutti i punti di vista, il mondo contemporaneo si frammenta, come dimostrato dalla creazione di nuove alleanze eterogenee come i BRICS, che professano dei valori perfettamente inconciliabili, senza un’etica comune: democrazia e dittatura, laicità e teocrazia, potenze ricchissime e stati impoveriti pretendono di fare fronte comune contro l’Occidente, senza altro progetto che disfare l’ordine antico, tratteggiando un nuovo disordine, già annunciato da Tzvetan Todorov nel 2003 e poi confermato. Su che cosa è fondato? La difesa dell’identità ridotte alla loro più semplice espressione, senza l’interferenza di espressioni individuali, né della “comunità”internazionale, una nozione qui priva di senso, con un orizzonte consistente solo in certi scambi commerciali e una collaborazione militare limitata.
Da queste situazioni deriva l’oscillazione del cosmopolitismo tra un’etica universale introvabile e una diversità culturale che resta affascinata dalle identità. Certi filosofi ne hanno ricavato la distinzione concettuale tra l’etica, intesa come comune, e la morale (o le morali), proprie a ciascuna cultura o ideologia. Ancora, bisogna concettualizzare questa oscillazione fondata sulla contraddizione logica che ne caratterizza la dinamica: equilibrata oppure spostata su uno dei poli, cioè l’autonomia dell’individuo o della collettività (e il suo ripiegamento in una identità che esclude ogni fondamento universale).
François Jullien (2016), Alain Renaut (2009) e altri dicono giustamente che l’identità non esiste, per il semplice fatto che ogni fenomeno si evolve, come conferma la scienza che esplora le profondità quantistiche: l’elettrone non è più na particella che oscilla attorno a un nocciolo fisso, ma salta per quanti discontinui, secondo il movimento “discontinuo” associato al concetto di quanto.
Sull’asse verticale, Kant aveva percepito il pericolo di una federazione di stati, suscettibile di degenerare nella dittatura degli attori più potenti sul piano politico (stati, imperi) o civile (economico, sociale, culturale o ideologico). L’equilibrio o la sintesi tra queste forze opposte, che convergono divergono, arriveranno, nella misura in cui questa potenzialità teorica divenga una forma di governo effettiva.