Intervista a Paul Ghils, a cura di Pierrick Hamon
1. L’universalizzazione del linguaggio scientifico.
H. Paul Ghils, filosofo e linguista, ha dato vita nel 2007 a Cosmopolis, una rivista che si occupa di internazionalizzazione dei saperi e soprattutto di “cosmopolitica” (https://www.cosmopolis-rev.org/fr/author/pghils). Quali sono le ragioni che ti hanno indotto a fondarla? All’origine Cosmopolis voleva forse diffondere le idee universalistiche dei filosofi illuministi?
Paul Ghils. Il progetto cosmopolitico è una questione nel senso filosofico del termine, cioè una domanda più che una risposta. Partendo da un interrogativo un po’ teorico, se ne verificano gli aspetti etici, morali e geopolitici nella realtà del mondo, che a loro volta sono delle questioni. Il cosmopolitismo è nato da un’interpretazione universalizzante del mondo conosciuto, ma scontra costantemente con la resistenza particolare e riduttiva, offerta da valori e interessi familiari, morali, etnici e filosofici. La nozione si riferisce in primo luogo a Immanuel Kant, che distingueva l’umanità dall’animalità in funzione della capacità della prima di superare i limiti dell’esistenza immediata e di allargare il circolo dell’identificazione e dell’appartenenza grazie alla socialità (Geselligkeit) e alle scienze umane (humaniora), allo scopo di coltivare la nostra umanità, instillando “il sentimento universale di simpatia e la capacità di impegnarsi universalmente in una comunicazione molto intima”.
Quest’ultimo concetto è già problematico, perché la scissione tra l’umano e l’animale, la natura e la cultura, si rivela essere propria del mondo occidentale, il che relativizza la nozione di universalità, e quindi ogni ipotesi cosmopolitica. Questa dissociazione è emersa con assoluta chiarezza di recente, con l’affermarsi della nozione di antropocene, che da un lato ristabilisce il rapporto intimo tra l’umanità e un “ambiente” considerato a lungo come esterno ad esso. D’altro canto, l’umano stesso si dà da fare con incoscienza, per ridarle vigore, squilibrando le componenti sia viventi che inanimate della biosfera. L’evoluzione del clima non è che un aspetto di questa evoluzione – sia detto senza la connotazione progressista abituale – che indebolisce ancora di più la visione idealista di certi programmi geopolitici, ma anche le iniziative di una società civile che esita tra l’ideale umanistico e le identità in disfacimento.
Risalendo nel tempo, il termine “cosmopolita” deriva dal greco kosmopolitēs (cittadino del mondo) e già all’epoca designa una grande varietà di punti di vista etici e sociopolitici. Rinvia all’idea che tutti gli esseri umani, quali che siano la loro affiliazione politica, le loro norme morali o l’appartenenza culturale, possono o debbono essere cittadini del mondo, di un’unica comunità idealmente universale, che respinge alcune delle obbligazioni che sono dettate dall’appartenenza. Che sia letterale o metaforica, la nozione di “cittadinanza mondiale” e l’universalismo che essa postula restano comunque legati al particolarismo delle origini greche (se si tratta del mondo occidentale) e ignorano generalmente il “resto”, o il mondo “orientale”, senza quasi conoscerne niente. e questo vale persino per il maggiore dei filosofi contemporanei, confinati ì, come dice Roger-Pol Droit (2001 et al.) al “mondo chiuso” della filosofia istituzionale. L’ipotesi universalista dell’Illuminismo è in parte infondata per le stesse ragioni, benché sia consolidata dalle conoscenze scientifiche e dalla lingua franca che le veicola, superando i limiti terminologici d’origine culturale, persino nel linguaggio della tecnologia, ritenuto definitivamente universale.
La comunicazione internazionale si è sviluppata in questo campo in funzione di griglie concettuali sottoposte a normalizzazione terminologica, benché l’universalità cercata dalla scienza sia tenuta alla cooperazione, all’interazione e allo scambio al di là delle frontiere. Il programma fisicalista del Circolo di Vienna, da cui è scaturita la teoria terminologica dominante, vuole tuttavia superare le varianti culturali che – si pensa – nascondono dei concetti e dei valori che possono fondare un sistema concettuale universale, che la scienza ha appunto il compito di costruire mediante la normalizzazione e la transnazionalizzazione dei saperi.
H. Dal 1985 al 2005, hai pubblicato “Transnational Associations“, organo dell’Union of International Associations (UIA). Cosmopolis nasce nel contesto di quell’esperienza di cooperazione internazionale?
Paul Ghils. Concretamente, la rivista Cosmopolis è un’estensione della rivista Associations transnationales, che avevo costituito come pubblicazione “scientifica” sulla scia dell’antico Bullettin des associations internationales dell’UAI (Union des associations internationales), non più pubblicato. Il Bullettin era stato fondato nel 1910 dall’avvocato Paul Otlet e dal senatore Henri La Fontaine (Premio Nobel per la pace nel 1913), entrambi di nazionalità belga, come organo dell’Office central des associations internationales, costituito in Belgio, paese che era divenuto sede principale delle organizzazioni inter-statuali e delle associazioni internazionali (ONG e OING, nel vocabolario dell’ONU) nel 1912. Nl 1914 l’UAI aveva federato 230 OING. Dal 1860 al 1914 il Belgio aveva ospitato 420 riunioni internazionali, il che lo metteva al secondo posto mondiale dopo la Francia.
La pubblicazione è anche legata agli altri progetti di Otlet, come la creazione di una Città mondiale, nel contesto della moltiplicazione e della federazione delle OING, sotto il controllo di una struttura mondiale che includeva gli attori non statali dopo il superamento dell’istituzione statale. Visione kantiana, nel senso che Kant evoca l’idea non di uno “Stato dei popoli”, che rischierebbe di degenerare in un’autocrazia universale, ma di una federazione dei popoli. Con La Fontaine, Otlet immaginò un’organizzazione internazionale degli Stati con una Costituzione mondiale della Società delle Nazioni (1915), centrata sulla Città internazionale extraterritoriale, concepita dagli architetti Le Corbusier e Pierre Jeanneret (a Ginevra, Bruxelles e poi Anversa). Otlet concepì la possibilità di perfezionare l’ordine sociale secondo il modello delle scienze esatte, fino a pensare alla costruzione di una “conoscenza totale”, una “ideogenia” universalizzante, che si doveva estendere al mondo intero, ordinata secondo un piano gerarchico gestito da una struttura mondiale. Il sapere che auspicava attraversava tutte le discipline, in un insieme che si potrebbe definire transdisciplinare.
Otlet e La Fontaine fonda su questi presupposti nel 1895 l’Institut mondiale de bibliografie, e nel 1920 l’UAI propone alla Società delle Nazioni di creare un organizzazione internazionale del lavoro intellettuale, fondata nel 1926 con il nome di Institut international de cooperation intellectuelle, le cui attività saranno riprese nel 1945 dall’UNESCO. In questa prospettiva, il loro Institut de Bibliographie pretendeva nientemeno che unificare le conoscenze del mondo intero sulla base del Repertorio bibliografico universale (RBU), creato da loro sulla base del metodo di classificazione universale di Melvil Dewey (DDC). Questo repertorio riprendeva le opere e gli articoli giornalistici pubblicati nel mondo, sotto forma di 12-15 milioni di schede bibliografiche. Questo fece dell’Institut il centro di documentazione più importante dal 1895 al 1914, una sorta di World Brain, per usare il termine inventato da G.H. Wells negli anni Trenta. Il progetto dette poi vita alla classificazione decimale universale (CDU) elaborata sulla base della classificazione di Dewey.
H. La standardizzazione universale dei sistemi bibliografici e della terminologia scientifica doveva quindi favorire la diffusione di una cultura universalista?
Paul Ghils. Al livello più accessibile del linguaggio comune, il formalismo dell’etimologia convenzionale si scontra con la plurivocità della lingua di uso quotidiano, come insieme di rappresentazioni estranee ad ogni “essenza” di un immaginario “reale”. Ogni senso resta ambiguo nella comunicazione interpersonale, malgrado il lodevole intento di venire a un accordo in funzione delle circostanze. Gli scambi verbali determinano di frequente l’ arricchimento, la complessificazione, l’accrescimento della polisemia, come è stato ben chiarito dalla concezione pragmatica della linguistica.
Il modello dialogico coniuga da un lato l’omogeneità, dal senso comune alla collettività, come si trova nei dizionari, e dall’altro la frammentazione tra parlanti, le cui interpretazioni sono eterogenee e polifoniche (Kerbrat-Orecchioni).
Il contrario si trova nella visione universalista del progetto della Scuola di Vienna , che si basa sulla terminologia tecnico-scientifica, considerata come universale. Si tratta di passare dai significati singolari al concetto universale, come vuole la tradizione filosofica da Aristotele a Leibniz, e come ci porta a fare una forma di traduzione che è volta a ridurre le lingue naturali a delle identità, a un’unica lingua concettuale ritenuta neutra, passando per l’inglese, ritenuto anch’esso neutro. Questa concezione viene ripresa dall’Unesco e traduce la teoria di Eugen Wüster con la creazione del Centro internazionale d’informazione per la terminologia (INFOTERM), che considera la terminologuia “essenziale per la comunicazione precisa ed efficace al di là delle barriere linguistiche e culturali” (Ghils 1992). Nella stessa ottica l’Unesco definisce delle norme internazionali di protezione del patrimonio dell’umanità in funzione delle sfide della globalizzazione. Certo la nozione di patrimonio dell’umanità resta un po’ contraddittoria (in senso buono), perché integra la coesistenza complessa delle differenze culturali e relativizza le identità, dicendo che “incarnano le visioni creatrici e le energie che permettono agli individui di arricchire e rinnovare queste identità mediante l’interazione con le altre culture, nella doppia prospettiva della pace e dello sviluppo”: le culture sono chiamate nella loro diversità a coesistere su scala planetaria.
Ora la scienza riconosce oggi che la costruzione dell’oggetto scientifico e della sua teoria implicano al contrario una disidentificazione dell’oggetto, perché essendo un costrutto, non potrebbe essere identico a quello costruito dalla teoria precedente, come ha ben visto Karl Popper. Al limite, l’oggetto fondamentale non esiste, come mostra la teoria quantistica, sostenendo che le particelle elementari sono intese come onde o come particelle secondo il modo con cui vengono rilevate, cioè secondo l’interpretazione che ne dà l’essere umano. Quanto all’oggetto “cosmico”, il cosmo per eccellenza, la sua realtà resta evanescente, perché la conoscenza che noi ne abbiamo – cioè la traduzione teorica che noi costruiamo – non supera il 5% dell’universo, il cui senso si perde inevitabilmente nella nebulosità.
In copertina: © Fabrizio Uliana, Piramide del Louvre, 2023