La crisi climatica ed energetica pone l’umanità di fronte a sfide senza precedenti. Da un lato, l’aumento delle emissioni di gas serra e il superamento dei limiti ecologici accelerano il degrado della biosfera; dall’altro, l’accesso iniquo alle risorse energetiche accentua le disuguaglianze sociali. In questo contesto emerge, seppur timidamente, il concetto di sufficienza energetica. In questo articolo esplorerò il concetto di sufficienza energetica, basandomi su precedenti approfondimenti pubblicati da Castelvecchi (2023) e su Quaderni della Decrescita (2024)[1].

Come sottolineato da Sarah Darby e Tina Fawcett, la sufficienza energetica è “la situazione nella quale i bisogni di base di servizi energetici sono soddisfatti in maniera equa e nella quale i limiti ecologici non sono oltrepassati”[2]​. Insomma, non è la situazione attuale.

Ma quanta energia è realmente necessaria per garantire il soddisfacimento dei bisogni di base? O, meglio, quanti e quali servizi energetici sono necessari?

Cogliere la differenza tra consumo di energia e consumo di servizi energetici è fondamentale in questo discorso. I servizi energetici sono le funzioni che l’energia permette di svolgere. Penso si potrà essere d’accordo con il fatto che non si utilizza energia per il semplice piacere di utilizzarla. La si utilizza per ottenere qualcosa: produrre, spostarsi, cucinare, pulire, illuminare, riscaldare, raffrescare, e tante altre cose (non necessariamente tutte costruttive). Per fare un esempio, non si usa l’auto (o il bus, o qualsiasi altro mezzo) per consumare l’energia contenuta nella benzina, ma per raggiungere una destinazione che, per uno o più motivi, si ritiene di avere bisogno di raggiungere.

Uno studio condotto da Millward-Hopkins e colleghi, pubblicato nel 2020, ha definito alcuni standard minimi per una “vita dignitosa” tra cui, giusto per fare alcuni esempi: 15 metri quadri di spazio abitativo pro-capite, riscaldato a 20°C; 50 litri di acqua pulita al giorno; una media di 10.000 chilometri pro-capite di spostamenti annui. Hanno poi calcolato che per soddisfare i bisogni essenziali di servizi energetici sarebbe necessario un consumo di energia molto inferiore (circa il 60% in meno) rispetto a quello attuale, soprattutto nei Paesi più ricchi[3]. E, tutto questo, per avere livelli di vita che sarebbero comunque ben lontani dal tanto temuto “ritorno all’età della pietra”.

Per quanto riguarda i Paesi dell’Unione Europea, lo scenario CLEVER (Collaborative Low Energy Vision for the European Region) mostra che sarebbe possibile ridurre il consumo di energia finale del 55% entro il 2050. Questa riduzione la si otterrebbe per metà con misure di efficienza energetica, cioè usando meno energia per ottenere lo stesso risultato. L’altra metà deriverebbe da misure di sufficienza energetica, riducendo le attività che richiedono l’uso di energia. L’energia residua potrebbe essere prodotta con sistemi rinnovabili, che hanno un impatto ambientale minore. In tal modo l’Unione Europea potrebbe raggiungere la neutralità climatica entro il 2045​, quindi con ben cinque anni di anticipo rispetto agli attuali propositi. Questo traguardo sarebbe inoltre raggiungibile senza ricorrere a soluzioni tecnologiche rischiose o non ancora adeguatamente sviluppate, come la cattura di CO2 o l’uso su larga scala dell’idrogeno come vettore energetico[4].

Si usa energia per ottenere certi servizi energetici che si ritiene di avere bisogno di soddisfare. E qui si arriva a un punto cruciale, ovvero al fatto che nelle nostre società si ha bisogno di fare parecchie cose di cui non c’è veramente bisogno. È un fatto noto da moltissimo tempo e tra le cause è possibile menzionare queste: il carattere sempre più individualistico – e basato oltremodo su logiche competitive – dei sistemi economici e sociali, sia a livello micro che macro; la presenza di tecniche di propaganda commerciale sempre più evolute; la presenza di infrastrutture fisiche, spaziali e temporali costruite per soddisfare le due caratteristiche precedenti.

Una società in cui la strategia della sufficienza energetica venisse perseguita sarebbe riconoscibile dal fatto che in essa si percorrerebbero mediamente meno chilometri; si vivrebbe in abitazioni mediamente più piccole e a temperature più moderate; elettrodomestici e altri dispositivi avrebbero dimensioni più ridotte; e così via. E questo non per via di repressioni, di rinunce o di impossibilità (povertà o, in generale, carenza di risorse), ma per via di un cambiamento di prospettiva, di valori, di norme, di visione del mondo, dei modi di organizzazione collettiva. È questo, inoltre, ciò che servirebbe affinché la riduzione dei livelli di consumo si possa tradurre non solo in una non riduzione, ma finanche in un aumento, del livello di benessere.

La sufficienza energetica non è solo un’idea teorica, e nella pratica non si potrà esaurire in un aumento degli appelli alla sensibilità, alla coscienza ecologica e alla buona volontà dei consumatori (privati e pubblici, individuali e collettivi) per ridurre sprechi. Il consumo di servizi energetici (e quindi di energia) è legato sì a comportamenti individuali, ma questi derivano da norme sociali e strutture economiche che non promuovono la sobrietà e/o promuovono il consumo eccessivo. Con tali appelli si possono certo ottenere risultati, ma se il sistema continua ad essere orientato verso una logica di escalation infinita, si mancherebbe comunque l’obiettivo.

È questa stessa logica di escalation infinita, tra l’altro, a rendere poco efficaci le misure basate sugli aumenti di efficienza energetica. Si tratta del fenomeno dell’effetto rimbalzo o del “paradosso di Jevons”. Negli ultimi decenni, ad esempio, pur essendo migliorata l’efficienza energetica di automobili, abitazioni e dispositivi, si percorrono più chilometri e con veicoli più grandi, le case sono mediamente diventate più grandi, e discorsi simili valgono per buona parte dei dispositivi che richiedono energia per funzionare. Il risultato è che il consumo di energia o continua a crescere o, quando diminuisce, lo fa troppo lievemente​​. In un sistema orientato verso una logica di escalation infinita, gli incrementi di efficienza energetica diventano funzionali a questa stessa logica.

La sufficienza energetica richiede pianificazione. Richiede che venga inserita all’interno di piani di lungo termine. Non è, insomma, una strategia a cui fare ricorso solo in situazioni di emergenza e solo quando non si può nascondere che le altre strategie non bastano. Le altre strategie – quelle note dell’efficienza energetica e dello sviluppo delle energie rinnovabili – sono strategie di carattere prevalentemente tecnologico, quindi non permettono di affrontare le radici culturali e sociali della crisi climatica e del sovraconsumo di energia.

Se piace pensare che l’Unione Europea potrebbe arrivare alla neutralità climatica già nel 2045 grazie al contributo della sufficienza energetica, allora si sappia che questo contributo potrà essere dato solo a una condizione: che alla sufficienza energetica venga data la priorità. Si tratta dell’approccio SER (dalle iniziali di Sufficienza, Efficienza, Rinnovabili). La prima cosa è creare le condizioni per cui si possa evitare il (sovra-) consumo di servizi energetici; poi, per quei servizi energetici che si ha comunque necessità di ottenere, fare in modo che possano essere ottenuti per mezzo di dispositivi sempre più efficienti dal punto di vista energetico; infine, utilizzare le energie rinnovabili per coprire il bisogno di energia che né la sufficienza né gli aumenti di efficienza saranno riusciti ad eliminare. È questo schema – con questo preciso ordine di priorità strategica – che consentirebbe di affrontare la crisi climatica in modo sistematico, evitando di sovraccaricare le tecnologie rinnovabili con richieste di produzione di energia che potrebbero avere – per vari motivi – serie difficoltà a soddisfare.

Un altro aspetto cruciale della sufficienza energetica è l’equità. La sufficienza energetica non riguarda solo la riduzione del consumo di servizi energetici, ma una redistribuzione più equa. Uno degli aspetti più critici della crisi climatica ed energetica è l’enorme disuguaglianza nella distribuzione dei consumi e delle emissioni. Mentre una parte della popolazione mondiale non ha accesso sufficiente all’energia per soddisfare bisogni essenziali, un’altra parte contribuisce in modo sproporzionato (talvolta molto sproporzionato) all’inquinamento globale con stili di consumo insostenibili. Questo squilibrio non solo mina la giustizia sociale, ma ostacola anche la possibilità di affrontare efficacemente le sfide climatiche. Per dare un’idea, secondo il World Inequality Report del 2022, una persona appartenente allo 0,01% più emettitore della popolazione mondiale emette, in cinque ore e mezza, la stessa quantità di gas serra che una persona del 50% meno emettitore emette in un anno[5]. Si tratta di dati che evidenziano non solo l’urgenza di ridurre i consumi energetici globali, ma anche la necessità di intervenire principalmente su chi consuma di più. Un aspetto da considerare è difatti la mancanza di attenzione dedicata alla “opulenza energetica” rispetto alla “povertà energetica”. Quello della povertà energetica è un problema grave, significativamente studiato e anche in qualche modo oggetto di attenzione politica, mentre il suo “contrario” – il sovraconsumo di servizi energetici da parte delle fasce più ricche – riceve molta meno attenzione, sia accademica che politica.

Se siete riusciti a seguirmi fino a qui e se, come spero, non avete trovato evidenti debolezze nei ragionamenti proposti, solitamente c’è comunque un’obiezione che viene posta. C’è un’idea diffusa e radicata che la stragrande maggioranza dei cittadini e delle cittadine non sarebbe d’accordo nel richiedere, o nel dare il proprio consenso a – figuriamoci a lottare per – misure che dovessero portare ad una riduzione dei livelli di consumo. E questo nonostante sia contemporaneamente abbastanza diffusa l’idea che certi consumi siano eccessivi, che molti consumi siano superflui, che si è in qualche modo anche forzati a intraprenderli. E, inoltre, nonostante sia sempre più diffusa la consapevolezza che la crisi ambientale sia particolarmente grave e che non ci siano segnali incoraggianti che dicano che la soluzione possa essere, seppure lontanamente, avvistabile.

Questa obiezione vorrei iniziare a sfatarla. Se la sufficienza energetica – al netto del fatto che non sia conosciuta – non viene acclamata a gran voce è perché non si usano i canali giusti per far sentire questa voce. Perché quando ai cittadini viene chiesto di proporre soluzioni per la risoluzione della crisi ecologica, o almeno di alcuni suoi aspetti, ad esempio durante le Assemblee Climatiche, le più forti preferenze emergono proprio per le misure di sufficienza e per le politiche che riducano il consumo obbligato o superfluo o che direttamente impediscano o disincentivino fortemente certe pratiche particolarmente consumatrici di energia e materia[6]. C’è una crescente consapevolezza della gravità della situazione ambientale, dell’insufficienza delle soluzioni “tradizionali”, e c’è anche un crescente desiderio che le azioni politiche siano all’altezza della gravità della situazione.

 

In copertina: © Fabrizio Uliana, “Jardin des Plantes”, 2024

[1] Arrobbio O. (2023). Sufficienza energetica. Il senso, le opportunità e le sfide di un diverso cammino per la transizione energetica. Castelvecchi. Roma. Pp. 217.

Arrobbio O. (2024). Sufficienza energetica. Per una transizione energetica equa e (quindi) efficace. Quaderni della Decrescita, 2, pp. 125-134.

[2] Darby S., Fawcett T. (2018). Energy Sufficiency. An Introduction, European Council for Energy Efficient Economy.

[3] Millward-Hopkins J. et al. (2020), Providing Decent Living with Minimum Energy. A Global Scenario. Global Environmental Change, n. 65, 102168.

[4] Baudelet F., Bourgeois S., Marignac Y. (2024). Neutralità climatica ed equità: il potenziale inesplorato della sufficienza. Riflessioni dal progetto CLEVER. Quaderni della Decrescita, 2, pp. 135-141.

[5] Chancel L. et al. (2022). World Inequality Report 2022. World Inequality Lab wir2022.wid.world.

[6] Lage J. et al. (2023). Citizens call for sufficiency and regulation—A comparison of European citizen assemblies and National Energy and Climate Plans. Energy Research & Social Science, 104, 103254.

L'autore

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Osman Arrobbio

Nato ad Asti nel 1977. Sociologo dell’Ambiente e del Territorio, ha studiato e lavorato prevalentemente a Torino e in Piemonte. I suoi interessi di ricerca principali includono la transizione energetica, l’interdisciplinarietà, il coinvolgimento di cittadini e stakeholder e, più recentemente, l’inquinamento luminoso. Attualmente svolge attività di ricerca sul tema delle Assemblee Climatiche presso l’Università di Parma.