Ormai tutto è chiaro e il gioco è scoperto. Presentando una proposta di revisione costituzionale che, dal punto di vista “tecnico”, rasenta il ridicolo, il Governo non ha l’obiettivo di modificare davvero la Costituzione, ma semplicemente di mostrare la propria efficienza e di mantenere gli impegni assunti con il programma elettorale. In vista del referendum.

A dir il vero agli elettori si era prospettata una riforma costituzionale di segno presidenziale, che è cosa ben diversa dal “premierato” elettivo che la riforma vorrebbe introdurre: presidenziale è la “forma di governo” che vige da sempre negli Stati Uniti e, in una versione molto diversa introdotta da De Gaulle, in Francia. Ma queste sono finezze rispetto allo slogan che ha preso forma esplicita nei discorsi della premier: gli obiettivi sono due, rendere stabili i Governi, che devono durare un’intera legislatura, e dare agli italiani il potere di scegliersi (finalmente!) chi li governerà! Sono slogan che sentiremo ripetere all’infinito se mai la riforma passerà in Parlamento e sarà sottoposta al referendum confermativo.

L’instabilità del Governo è un problema chiaro a tutti. Le statistiche sono impietose nel testimoniare la storica instabilità dei Governi nazionali, e le conseguenze del fenomeno sono evidenti: Governi costretti ad occuparsi più della ricerca del consenso elettorale verso i singoli partiti uniti nella coalizione di maggioranza (mentre è quasi fisiologico che altrettanto capiti ai partiti di opposizione), piuttosto che impegnarsi seriamente su obiettivi e strategie di lunga gittata, cioè a tutto ciò che richiederebbe un serio “governo” del Paese purificato dalla contingenza.

Se il problema è chiaro, e molto serio per giunta, per immaginare le soluzioni possibili si dovrebbe prima individuarne le cause. C’è forse qualcosa in Costituzione che favorisce la debolezza del Governo, o forse addirittura ne ostacola la stabilità? Direi proprio di no: la stabilità del Governo è anzi favorita dalla disciplina della fiducia e dalla regola del voto palese. I dati storici ci dicono che l’esito di questa disciplina è ottimo: nessun Governo è caduto a seguito di una mozione di sfiducia: anzi, l’ultimo caso di una mozione di sfiducia approvata da un Parlamento italiano risale addirittura al Governo Di Rudinì, nel 1892; mentre i due Governi Prodi caddero per una “questione” di fiducia posta dallo stesso Prodi per sfidare in campo aperto la sua maggioranza; e lo stesso Governo Draghi si è dimesso a seguito di una questione di fiducia posta dal Governo stesso: questione che ha peraltro ricevuto un voto largamente positivo dal Senato, ma che rivelava lo sfaldamento “politico” della maggioranza. Non lo strumento costituzionale, dunque, ma il gioco politico è la causa della crisi: del Governo Draghi come di tutti i precedenti, la cui fine è stata segnata dalle dimissioni “volontarie” del capo del Governo.

Se questo è vero, ne deriva che qualsiasi tentativo di agire sull’aggravamento della procedura di formulazione della mozione di sfiducia non avrebbe alcuna prospettiva di rafforzare il Governo in carica: sarebbe un cacciavite senza viti; le viti stanno in un altro cassetto, quello della politica.

Giusto è allora puntare l’attenzione sulla prospettiva politica, cercare cioè strumenti che rafforzino e stabilizzino le maggioranze. Il primo strumento a cui pensare è ovviamente la legge elettorale. Ma anche questa ovvietà va un po’ smitizzata. Anche l’attuale legge elettorale, unanimemente considerata pessima, ha però prodotto nelle ultime elezioni politiche del 2022 una maggioranza precisa e delimitata, frutto della scelta degli elettori. Non è forse vero che l’attuale Governo ripete ogni giorno che la sua origine sta nel voto degli elettori e che forte di tale investitura intende governare per l’intera legislatura? Quali potrebbero essere le (potenziali) cause della fragilità della maggioranza attuale e del suo Governo? La risposta è persino banale: le frizioni, i contrasti, la concorrenza tra i partiti e gli esponenti che la formano.

Ma se questa è la causa della malattia da combattere, poco si può fare con una riforma costituzionale. Bisognerebbe agire sulla disciplina delle coalizioni e, ancora prima, sulla disciplina dei partiti, cioè sulla attuazione della Costituzione, del suo art. 49. È davvero sorprendente che si sia perso di vista il vero tenore di questa norma, che riguarda i partiti come strumento di un diritto costituzionale dei cittadini alla partecipazione politica: aver lasciato i partiti senza una disciplina attuativa significa aver menomato i diritti politici degli italiani.

Il desiderio di “premierato” nasce da un’invidia freudiana per l’efficienza e la stabilità riconosciuta ad altri sistemi politici. Premesso che, come è noto, il “premierato” inteso come elezione diretta del premier non esiste in nessuna parte del mondo conosciuto, l’invidia si appunta, alternativamente, sul sistema britannico (in cui il concetto e il termine di “premier” ha origine), sul semi-presidenzialismo francese o sul “cancellierato” tedesco – tutti sistemi in cui la stabilità dell’esecutivo è stata ottenuta in passato grazie a condizioni che non c’entrano con l’elezione diretta del premier, che in nessuno di essi è prevista. Ma è anche un’invidia mal riposta, dato che tutti questi sistemi hanno nel frattempo rivelato un’inattesa instabilità: conclamata nel Regno Unito, dove gli esecutivi che si sono alternati dopo le elezioni del 2019 mostrano una fragilità sconosciuta un tempo; quasi strutturale in Francia, dove i governi si succedono con una certa frequenza, rivelando la difficile “governabilità” di un paese che pur eleggendo direttamente il Presidente della Repubblica, richiede la fiducia parlamentare del “suo” Governo; e ormai anche in Germania, dove il sistema partitico tradizionale tripolare è da un po’ di tempo “saltato”.

La lezione dovrebbe essere chiara. Se la crisi di governabilità nasce dalla crisi dei partiti, bisognerebbe agire nel verso di stabilizzare un quadro partitico efficiente, a cui poi ancorare un sistema elettorale che funzioni bene. Purtroppo la strada intrapresa in Italia da decenni va nella direzione esattamente opposta. I partiti sono stati smantellati con una rincorsa inarrestabile tra destra e sinistra, come se fosse il comune obiettivo da abbattere. I partiti sono stati da sempre un obiettivo da abbattere per il pensiero liberal-conservatore, ma che in anni più recenti ha attratto anche il “codismo” del centro-sinistra: «gente fermamente decisa a stare sempre dietro al movimento come una coda» li definiva Lenin, e l’immagine ben si adatta alla rincorsa che ha fiaccato la sinistra inseguendo, appunto, gli slogan della destra (il c.d. federalismo, da cui è nata l’infelice riforma costituzionale del 2001; il voto degli italiani all’estero, un vero obbrobrio costituzionale; l’abolizione di ampi tratti dello Statuto dei lavoratori…). Non si può dimenticare che è stato il Governo Letta ha togliere il sussidio pubblico ai partiti, facendo dell’Italia l’unico Stato europeo che non finanzia i partiti con danaro pubblico. Abbiamo tolto il finanziamento necessario a far funzionare uno strumento che la Costituzione ha voluto indicare come lo strumento di esercizio di un diritto costituzionale dei cittadini. E che è stato lo strumento del successo del sistema politico-costituzionale tedesco, che in tanti invidiamo.

E poi ci sono gli inganni. Quel che si dirà agli elettori è che chi si oppone alla riforma vuole togliere agli elettori stessi la scelta del capo del governo per consentire i soliti “inciucci” dei partiti e le scelte antidemocratiche del Presidente della Repubblica, tutti felici di gabbare la volontà degli elettori imponendo loro l’ennesimo Governo tecnico!

Ma questo slogan è una bufala. L’inganno appare evidente se solo si ragiona su cosa significherebbe “dare agli italiani il potere di scegliere chi li governerà”. Non è immaginabile che gli italiani vadano al voto senza un’indicazione elettorale dei candidati alla presidenza del consiglio: quanti saranno non lo si può prevedere, ma siccome verrebbe eletto chi prende un voto di più dei concorrenti, la partita si risolverà nella scelta tra due o tre candidati. Un’elezione a turno unico finirebbe in uno scontro all’ultimo voto tra concorrenti scelti dai partiti: gli italiani non avrebbero alcun potere in più di quanto possono già ora esercitare se si fronteggiano due coalizioni sufficientemente organizzate. Insomma, per il potere di scelta degli elettori non cambierebbe praticamente nulla. Il premierato elettivo (a turno unico) da questo punto di vista è sicuramente una bufala.

Ma la stessa conclusione si può raggiungere se solo si ragiona sulla situazione attuale. Giorgia Meloni mena vanto (e a ragione) di essere stata scelta dagli italiani: è stato un accordo tra partiti stretti in una coalizione di proporre alla guida del Governo il leader del partito che avesse preso più voti. E così è andata. Ma allora che cosa cambierebbe con la riforma? Proprio nulla quanto al potere di scelta degli elettori – scelta che è stata già pienamente esercitata nell’ambito dell’attuale costituzione e dell’attuale (pur orribile) sistema elettorale. Forse cambierebbe invece quanto a garanzia di stabilità del Governo “eletto”?

Solo in apparenza. La riforma prevede che se cade il premier, quale ne sia il motivo, si sciolgono le Camere e si ritorna al voto: se così fosse davvero, al Presidente della Repubblica non resterebbe alcun potere di scelta. Ma non è così: gli si dà la possibilità di ridare l’incarico al premier dimissionario/sfiduciato oppure ad un altro parlamentare esponente della stessa maggioranza. Come è stato subito segnalato, questa soluzione ricorda la malfamata “staffetta” dei governi di centro-sinistra (DC-PSI), che a metà legislatura sostituivano il capo del governo dando spazio ad altre forze della maggioranza. Non sarebbe un’ipotesi verosimile se, per esempio, la Lega ottenesse un grande successo in qualche elezione (ipotesi però inverosimile) inducendo il suo leader nella tentazione di ripetere il goffo tentativo di ribaltare il Governo Conte I, nell’estate 2019? Sarebbe allora così improbabile, per esempio, un “Governo Giorgetti”, magari con un forte caratura “tecnica”? Non sarebbe di certo la riforma costituzionale ad impedirlo!

Ecco perché la riforma è un inganno: non offrirebbe nessun potere in più agli elettori, né darebbe maggiori garanzie di stabilità ai governi “eletti dal popolo”. Perché la scelta del candidato a cui affidare il Governo e la sua stabilità non dipendono dalle regole costituzionali, ma dal gioco dei partiti. E’ la compattezza della coalizione a prospettare agli elettori il candidato a presiedere il governo; è la compattezza politica della coalizione a garantire la stabilità del governo. Il resto sono bufale.

L'autore

Roberto Bin

Roberto Bin è già ordinario di Diritto Costituzionale all'Università di Ferrara.