Che cos’è la medicina di genere?

Il tema della differenza di genere nel campo della salute è recentissimo. Per secoli la medicina ha avuto un’impostazione androcentrica, ossia la clinica, la ricerca scientifica e la farmacologia si sono sempre incentrati sull’uomo adulto, differenziando le donne solo per le ricerche sull’apparato produttivo. Questo processo è stato recentemente stigmatizzato come “la medicina del bikini”.

Intanto diciamo cosa non è la medicina di genere: non è la medicina delle donne, come tanti e tante credono. Secondo l’OMS la Medicina di genere o genere specifica è “lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona”.

Esiste una mole di dati epidemiologici, clinici, e sperimentali che attestano differenze rilevanti nell’insorgenza, nella progressione, nelle manifestazioni cliniche delle malattie comuni ad entrambi i sessi ed anche nella risposta degli eventi avversi associati ai farmaci. Si differenziano inoltre le risposte ai nutrienti e negli stili di vita, e si rilevano importanti differenze nell’accesso ai servizi sanitari ed alle cure.

 “Brandelli” di storia della medicina di genere

Rintracciamo i primi segni della medicina di genere nel 1991: la dottoressa Bernardine Healy, direttrice dell’Istituto di Cardiologia del NIH, sul New England Journal of Medicine dimostrò l’esistenza di discriminazioni nella prestazione di cura per la patologia cardio-vascolare. Dapprima osservò un aumento di decessi per infarto nelle donne rispetto agli uomini, una minore ospedalizzazione delle stesse, e si prevedevano meno interventi specifici nei percorsi di cura in confronto agli uomini. In realtà i sintomi dell’infarto maschile, da sempre studiati come universalmente riconosciuti, possono differenziarsi nelle donne. La mancanza di conoscenza circa la possibilità di una diversa sintomatologia rispetto a quanto conosciuto, ritarda la diagnosi, determinando un maggior numero di decessi nelle donne.

Siamo nel 1995 quando alla IV Conferenza Mondiale sulle Donne (a Pechino), si parla di Medicina di Genere, o medicina genere-specifica; nel 2000 anche l’Oms, nell’Equity Act*,[2] riprende le deliberazioni di Pechino per assumere la definizione di medicina di genere come la conosciamo oggi. Seguono nel 2006 altri eventi fondamentali come il 1° congresso internazionale sulla medicina di genere, mentre in Italia si tiene nel 2009 il 1° congresso Nazionale sulla medicina di genere: l’approccio di genere (non una branca della medicina), viene quindi considerato un fattore determinante della salute, base per trovare i metodi più opportuni, adeguati, efficaci ed utili a diagnosticare e curare una malattia.

Le donne e gli uomini: quante differenze

Le donne vivono più a lungo degli uomini, ma si ammalano di più. Consumano più farmaci nel corso della vita, sono più soggette a reazioni avverse, la loro aspettativa di “vita sana” è inferiore agli uomini e la loro qualità di vita è fortemente influenzata dalle malattie. La scienza non ha del tutto chiarito le cause della longevità femminile, ma certo hanno una funzione fattori biologici intrinseci al sesso femminile, come l’influenza degli ormoni, o le caratteristiche del sistema immunitario, e si ipotizza anche un diverso modo di smaltimento dei radicali liberi dell’ossigeno.

Naturalmente incidono anche fattori culturali e sociali che determinano le malattie femminili. Vediamo alcune differenze: all’introduzione delle donne nel mondo del lavoro non si sono accompagnati studi specifici sul rapporto corpo femminile/ambiente lavorativo, compreso l’inadeguatezza degli strumenti per la sicurezza che non sono stati adattati alle caratteristiche biologiche del corpo femminile. Le donne consumano più farmaci, come dimostrano le statistiche ministeriali, e percepiscono il loro stato di salute peggiore rispetto agli uomini. Inoltre curano più la prevenzione: è probabile che l’avere l’onere della cura dei propri familiari le renda più consapevoli e responsabili dello stato di salute e della necessità della prevenzione. Le discriminazioni nel corso della loro vita, riguardano anche l’accesso alle cure, sono statisticamente le prime a rinunciarvi in favore dei propri familiari, rinunciano al lavoro o ai percorsi di carriera per il sovraccarico del lavoro di cura familiari.  Le condizioni della loro vita da adulte hanno ricadute nella terza età: le anziane sono più povere e più sole degli uomini, ed anche questi sono determinanti sociali che incidono pesantemente sulla salute.

Le malattie e la differenza di genere

Le statistiche dimostrano molte differenze nelle patologie. Ad esempio la depressione colpisce prevalentemente le donne, così come le demenze Alzheimer. Di artriti e artrosi soffrono più le donne, di osteoporosi le donne soffrono prima degli uomini (patologie post-menopausale) ma questi ultimi non ne sono esenti, anche se la malattia si manifesta in età più avanzata. Il diabete colpisce più gli uomini, le donne presentano una maggiore mortalità per le complicanze di tipo cardiovascolare correlate. Infatti il diabete modifica il livello di protezione cardiovascolare delle donne, portandole ad avere un fattore di rischio di ben due volte superiore agli uomini. Con la menopausa la protezione ormonale viene meno e si incorre più facilmente in trombosi (mentre fino ai 50 anni le donne risultano meno colpite degli uomini) e in ictus o infarto. Sempre a causa delle alterazioni ormonali, l’insufficienza venosa colpisce più le donne agli arti inferiori, probabilmente anche perché più sedentarie (le donne cominciano solo ora ad avvicinarsi alle attività motorie, probabilmente per mancanza di tempo).

Queste sono solo alcuni esempi delle differenze che attraversano i due generi nelle diverse patologie.

Emerge l’importanza dell’approccio di genere per le diverse patologie perché consente di analizzare le differenze con cui i due generi rispondono alla malattia, i fattori di rischio, come si evidenziano e percepiscono i sintomi della malattia, la possibilità (e la capacità) di accedere ai servizi sanitari, alle forme di prevenzione primaria e secondaria (screening). Un approccio di genere consente di dotarsi degli indicatori per individuare la diagnosi e le terapie, comprendere quanto il/la paziente possa accettare il percorso clinico, e aderire al progetto terapeutico stabilito dal medico.

I farmaci

Bisogna avere una farmacologia di genere: ciò non significa affatto studiare solo le donne, ma è necessario creare nuovi modelli di salute anche per l’uomo. È necessario integrare gli aspetti biologici con quelli sociali, illuminando le differenze e riconoscendo le consonanze. Le donne, da secoli praticamente escluse dai modelli di ricerca farmacologica, hanno meccanismi di assorbimento, di metabolizzazione, distribuzione ed eliminazione dei farmaci diversi dal sesso maschile

Esse, come detto, consumano farmaci tra il 20-30% in più rispetto agli uomini*e la loro sottorappresentazione nell’ambito della sperimentazione farmacologica e clinica è molto preoccupante. L’’arruolamento di entrambi i sessi in tutte le fasi della ricerca è condizione fondamentale per l’appropriatezza delle cure. Un intervento terapeutico più mirato al genere è fondamentale anche per la compatibilità economica della spesa sanitaria di un Paese.

La personalizzazione delle cure

La medicina di genere o genere specifica ha dato un grande contributo al principio di personalizzazione della cura. Ogni persona è unica e va considerata in quanto tale, anche quando malata, considerando i “suoi” profili di rischio, l’appartenenza ad una specifica etnia, il proprio stile di vita, la storia personale e le predisposizioni genetiche, ecc.

Anche l’OMS indica con più deliberazioni la necessità di considerare l’approccio di genere nella strutturazione dei sistemi sanitari che si devono fondare sul principio dell’appropriatezza delle cure, raccomandando ai decisori delle politiche, ai professionisti della sanità, ai ricercatori, di considerare le differenze nella realizzazione dei modelli sanitari, dai percorsi diagnostici a quelli terapeutici/assistenziali, in modo da integrarli adeguatamente al vissuto dei pazienti. Un giusto approccio favorisce l’integrazione coi sistemi di welfare per garantire equità in sanità e migliorare il benessere della popolazione. Inoltre un approccio olistico alla salute impone l’inserimento nell’ambito delle cure di nuove discipline e nuove figure professionali. Non bastano le strutture di prossimità, bisogna adeguarne i percorsi di accoglienza multidisciplinari e multidimensionali, e indirizzare i percorsi di cura in una modalità basata sugli aspetti bio-genetici e i determinati sociali, a partire dal genere. Ciò a cui dobbiamo aspirare è la cosiddetta medicina delle 4P. “Personalizzata preventiva predittiva e partecipativa”.

 Quando “questo non è il mio genere”

 Ricerche hanno dimostrato che nel mondo una persona su 100 ha differenze o disordini dello sviluppo sessuale a causa di alterazioni di diverso tipo. Se i genitali, poi, non sono chiaramente maschili o femminili i soggetti vengono definiti “ambigui”. In questo mondo, dove persino gli elenchi elettorali sono divisi per due, non vi è posto né per l’ambiguità “sessuale”, né per chi non si riconosce in una classificazione binaria. La storia ce lo insegna. Probabilmente ancor oggi nel mondo i bambini vengono “corretti” secondo quanto è più conveniente chirurgicamente. È come una scelta di sesso d’ufficio, che magari può non corrispondere affatto all’identità sessuale biologica. Si tratta di una cultura basata sul processo di medicalizzazione applicato alla sessualità che si aggiunge a forme sanitarie applicate storicamente come la castrazione chimica degli omosessuali o il loro ricovero in manicomio.

In natura vi sono numerosissime sindromi sessuali che non necessariamente comporterebbero l’intervento medico, come nell’intersessualità che può comprendere una percentuale di bambini di 1 su 100. Vi è cioè circa la stessa percentuale di bambini con i capelli rossi (1 su 172 nel nostro paese) e quindi si tratta di fenomeni assai diffusi*. Se si aspetta la crescita del bambino/a sarà il corpo a definire l’appartenenza sessuale. Le persone intersex possono essere etero, omo, bisex asessuali ecc.

Per quanto attiene l’orientamento sessuale delle persone va sottolineato che non si sceglie di essere etero o omo, ecc.  Si è, e basta. L’orientamento sessuale, anche se non si conosce ancora tutto, è frutto di molteplici e complessi fattori, che comprendono anche fenomeni legati alla vita intrauterina, agli ormoni, all’epigenetica, al sistema immunitario ecc. Di certo vi è una questione: ognuno di noi sceglie i propri partner secondo la propria natura, e non contro di essa*[3].

 Un po’ di definizioni:

  • GENERE: comportamenti e atteggiamenti che una determinata cultura associa al sesso biologico;
  • INCONGRUENZA DI GENERE: non corrispondenza tra il sesso assegnato alla nascita e il genere con cui l’individuo si riconosce;
  • DISFORIA DI GENERE: sofferenza o malfunzionamento clinicamente significativo derivante dalla incongruenza di genere;
  • TRANSGENDER: termine generico per identificare persone con una identità o un’espressione di genere che si discosta dal sesso biologico;
  • PERSONE NON BINARIE: che non si riconoscono unicamente nel genere maschile o femminile

La possibilità di intraprendere un percorso di riassegnazione chirurgica e/o anagrafica del sesso è sancita, in Italia, da due riferimenti normativi: la legge n. 164 del 1982 e il decreto legislativo n. 150 del 2011. Nonostante si tratti di norme ormai datate non si deve pensare che il percorso in Italia sia privo di ostacoli, non solo per quanto attiene i servizi di tipo sanitario necessari alla transizione, ma soprattutto per quanto riguarda l’aspetto del riconoscimento sociale e della lotta ai pregiudizi e agli stereotipi legati a persone transgender e transessuali.

Le terminologie specifiche

  • FTM (FEMALE TO MALE) transizione da femmina a maschio;
  • MTF (MALE TO FEMALE) transizione da maschio a femmina;
  • AFAB (ASSIGNED FEMALE AT BIRTH) assegnata femmina alla nascita
  • AMAB (ASSIGNED MALE AT BIRTH) assegnato maschio alla nascita

Per quanto attiene gli interventi chirurgici sono necessari servizi, meglio se coordinati con il MIT[4],

percorsi definiti e indicazioni certe. Si tenga conto che si accede all’intervento chirurgico solo con la sentenza del Giudice che si esprime sulla base delle perizie formulate dagli specialisti psicologi ed endocrinologi.

Inutile dire che è necessario sensibilizzare tutto il personale sanitario in merito al percorso di riassegnazione del genere. Conoscere è imprescindibile per dare un aiuto concreto e competente, è quanto mai opportuna una formazione specialistica per il personale che opera in questi ambiti. Purtroppo si tratta di percorsi che prevedono sempre un iter complesso e lungo nel tempo.

Conclusioni

Per andare verso una vera medicina di genere sono necessarie specifiche condizioni

  • Deve estendersi la consapevolezza dell’importanza della M.D.G, anche in ossequio di quella medina partecipativa di cui tanto si parla. Non solo gli operatori sanitari debbono averne la cultura e la consapevolezza, ma i e le cittadine.
  • La ricerca deve orientarsi all’inclusione delle differenze di sesso negli studi preclinici, clinici farmacologici, rappresentando anche le donne di ogni età fra gli arruolamenti.
  • I dati delle ricerche debbono essere analizzati in modo disaggregato per genere.
  • La formazione deve essere permanente ed estesa a tutti i livelli di studio dei professionisti sanitari.

Questo è un ulteriore campo di battaglia per una sanità equa, appropriata e ugualitaria.

 

Bibliografia:

“Farmacologia di genere” Franconi Montilla, Vella (2010)

“Il sesso è quasi tutto” Antonella Viola (2022)

“Pensare la longevità dopo la pandemia”: articolo “Longevità e centralità della persona: il punto di vista della medicina di genere “(Gentili, Ribani, Stefani) a cura di Auser Emilia Romagna (2022)

“Questo non è il mio genere” atti del convegno 2023 organizzato da MEG, SPI CGIL BOLOGNA

[1] Titolo dell’articolo da una canzone di Franco Battiato

[2] Equity Act Deliberazione OMS 2000

[3] [3] Da “Il sesso è (quasi) tutto di Antonella Viola edizioni Feltrinelli

*dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco.

[4] MIT movimento identità trans

In copertina: AM Hoch, Six Breathers, olio su tela (1986)

L'autore

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Valeria Ribani

Professionista della sanità in pensione, attiva nel volontariato in particolare nel campo delle demenze.
Vicepresidente di ARAD (Associazione per la ricerca e l’assistenza delle demenze), riveste il ruolo di
referente per i progetti di comunità dell’area metropolitana bolognese.