acques Delors, militante del movimento sindacale cristiano prima di diventare una personalità politica, dopo la crisi del “maggio 68″ e la partenza del generale De Gaulle, si unì al primo ministro Jacques Chaban Delmas, per contribuire, nel quadro di un nuova apertura politica, al varo di una “Nouvelle Société”, più contrattuale. Si trattava di cercare di sbloccare la “Francia bloccata” – come confermava il sociologo Michel Crozier già dal 1972 – con il dialogo sociale e una maggiore libertà di espressione. Questo tentativo fu rapidamente e nuovamente bloccato… dalla quasi totalità degli attori politici francesi del momento, a cominciare dal presidente della Repubblica Georges Pompidou. Erano gli stessi che si erano alleati, sia da sinistra che da destra, per sventare, soprattutto all’interno del “Senato” (che non è del resto un vero senato come viene concepito altrove) la riforma fondamentale proposta da De Gaulle l’anno precedente, basata sul medesimo principio: la “partecipazione”.
Logicamente questo fatto rese Jacques Delors molto diffidente. Imparata la lezione, con coraggio e lucidità, decise di non candidarsi alle elezioni presidenziali del 1994, avendo a che fare con dei partiti politici (a partire dal suo, il PS), che avrebbero bloccato nuovamente tutto. Lo aveva già annunciato Henri Emmanuelli, primo segretario del PS. Il Partito Socialista, all’inizio degli anni ’90, si era allontanato progressivamente dai valori e dagli orientamenti propugnati da Pierre Mendès-France, suo grande punto di riferimento.
In questo senso, Jacques Delors potrebbe essere considerato un “gollista di sinistra”, come si diceva allora. Secondo lui, non spettava più allo Stato centrale decidere per conto degli attori sociali. Jacques Delors, infatti, fu sempre, per esperienza, diffidente nei confronti degli “alti funzionari pubblici alla francese”, sintomo di un centralismo autoritario che costituisce ancora un’eccezione in Europa, nonostante il decentramento peraltro incomnpiuto. È del resto questa la concezione dell’azione pubblica che condivideva in Francia con Michel Rocard: una “politica contrattuale” basata sul dialogo democratico e decentrato. L’applicò a sé stesso non appena arrivato alla guida della Commissione Europea, il 1° gennaio 1985. Ed era ovvio per uno che era stato a lungo attivista sindacale della CFDT – l’ex sindacato cristiano CFTC – cui rimase sempre vicino come fondatore del think tank “Notre Europe”, fino alla sua morte, avvenuta il 27 dicembre 2023.
Per l’amico e consigliere a Bruxelles, Jean-Pierre Bobichon, anche lui ex attivista sindacale della CFDT e oggi amministratore del think tank Notre Europe, Jacques Delors è stato innanzitutto l’architetto di un’Europa sociale. “Come sindacalista, la lotta contro tutte le esclusioni era per lui una battaglia permanente. Ha lottato instancabilmente per costruire un’Europa che non dimentichi i suoi cittadini, e in particolare i più indigenti. I suoi valori condivisi erano il rispetto e il dialogo, l’equità, la solidarietà e la responsabilità, il rifiuto delle ingiustizie sociali e territoriali. L’emancipazione attraverso la cultura e l’apprendimento permanente è stato un obiettivo costante”. Lo dimostra, tra l’altro, l’immenso successo dei programmi Erasmus, che hanno già lasciato il segno in diverse generazioni di giovani europei. Ciò ha prodotto in tutti loro un cambiamento radicale nella percezione e nella visione dell’Europa e del mondo: la speranza di un’Europa più aperta e autonoma.
Assumendo la presidenza della Commissione Europea, dopo aver girato tutte le capitali, Jacques Delors, la cui coerenza di convinzioni è unanimemente riconosciuta, aprì immediatamente il tempo del dialogo e, in primo luogo, del dialogo sociale europeo. Si trattò, oltre allo stesso dialogo regolare con gli attori sociali, caratterizzato anche da una certa complicità con i sindacati secondo Jean-Pierre Bobichon, della “Carta comunitaria dei diritti fondamentali dei lavoratori” presentata a Stoccolma ai membri della Confederazione Europea dei Sindacati nel 1988, 12 anni prima della Carta dei Diritti Fondamentali dei Cittadini.
Ma i capi di Stato, che in realtà sono sempre stati più propensi a favorire una governance intergovernativa dell’UE, presero l’abitudine di scegliere un presidente della Commissione, poi un presidente del Consiglio Europeo, che non facesse loro ombra. Il che, come vediamo oggi, indebolisce ulteriormente la governance e l’autonomia dell’Europa. La lotta per il nuovo presidente della Commissione europea fu fin dall’inizio dura. Così pensarono, accettando la candidatura di Jacques Delors, che pur essendo socialista, aveva pur sempre rilanciato l’economia francese con una politica di rigore coraggiosa e impopolare. Ma, fin dall’inizio, come ha appena ricordato in un bellissimo omaggio il suo ex stretto collaboratore Riccardo Perissich, “i primi scambi rivelarono ai suoi interlocutori europei certi tratti di carattere talora scomodi. Si capì subito subito che il Il viaggio del nuovo presidente non sarà un fiume lungo e tranquillo. Questo valeva per i responsabili delle capitali e per chi, come me, lavorava alla Commissione a Bruxelles. Nessuno, infatti, era abituato a un presidente che iniziasse il suo mandato con una strategia articolata” (in Telos.eu).
Certo, doveva portare a termine il progetto del mercato europeo e alcuni, tra i suoi amici politici, lo accusarono poi ingiustamente di essere diventato il presidente dell’Europa mercantile. Tuttavia, come amava sottolineare, “del mercato nessuno si innamora”.
Poi fu la volta dell’“Atto unico”, poi del Trattato di Maastricht del 1992, che riconobbero, tra l’altro, il posto delle regioni e dei territori. Dopo la lotta contro le ingiustizie sociali, non si poteva più trascurare le persone, le ingiustizie e gli squilibri territoriali. Si trattava della politica regionale, che con i successivi allargamenti divenne la più importante dal punto di vista finanziario, insieme alla politica agricola. Questo fu fatto sempre d’intesa con il Comitato economico e sociale europeo, nonché con il Parlamento europeo, poi successivamente con il Comitato delle regioni dell’UE.
Dopo l’Irlanda, e prima della Polonia e di altri, Spagna e Portogallo hanno beneficiato in modo spettacolare di questa nuova politica regionale. Ovunque ci sono opere e cartelli che indicano l’intervento del FESR. Era necessario aiutare le regioni più povere o emarginate, anche d’oltremare. Fu un successo immenso, riscontrabile in tutta Europa. Delors aveva voluto fin dall’inizio essere tanto pragmatico quanto visionario, e lo fu. È questo pragmatismo che Helmut Kohl gli riconobbe quando decise di sostenere immediatamente la riunificazione della Germania dopo la caduta del Muro di Berlino.
Poi c’è stata l’ambiziosa – e troppo veloce? – politica di integrazione dei “nuovi arrivati”. È tuttavia questa luminosa visione dell’Europa verrà convalidata il 31 dicembre 1992 con la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e, soprattutto, delle persone, prima dell’adozione della moneta unica da parte di un numero crescente di paesi UE.
Fu pragmatico, quindi, Jacques Delors: un uomo capace di ascoltare, che conosceva le opportunità e le difficoltà derivanti dalla grande diversità, ma anche dalla grande ricchezza delle identità europee. Era diventato un costruttore del pensiero europeo e della progressiva costruzione di questa identità. È un’identità condivisa e aperta, che non rifiuta quelle degli altri, ma al contrario accoglie in Europa anche culture regionali e minoritarie. Un’identità molteplice, che è quella dei giovani e delle nuove generazioni, dei popoli e di questa sorta di Federazione di Stati-Nazione e Regioni che lui amava, e che capiva più di tanti altri, lui uomo delle convinzioni, uomo dei compromessi. Quest’ultima qualità, però, non è proprio la prima qualità dei suoi concittadini francesi!
Mentre viviamo in un periodo particolarmente “complesso”, secondo il filosofo Edgar Morin, e perfino pericoloso, vale la pena ricordare che anche Jacques Delors si batté per un’Europa sovrana e non allineata, e più orientata al vicinato mediterraneo e africano.
Come ricorda Bernard Poignant, un altro dei suoi più stretti amici politici, Jacques Delors fu una delle rare personalità a conoscere le parole dell’Inno alla gioia, questa poesia di Schiller del 1785, musicata da Beethoven nella sua nona sinfonia.
Grande momento di emozione quando l’inno europeo è risuonato al termine della cerimonia di omaggio presieduta il 5 gennaio, nel magnifico cortile dell’Hôtel des Invalides, dal presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron e preparata con Martine Aubry, sindaca di Lille, figlia dell’uomo che, da quel momento in poi, potrà essere considerato uno dei più grandi uomini – forse il più grande? – della storia dell’Unione Europea. Lasciamo che la Storia ce lo confermi, ma la mia convinzione me la sono fatta.
Infine, una testimonianza più personale: qualche tempo dopo il suo insediamento a Bruxelles, Jacques Delors aveva accettato di continuare a partecipare ai tradizionali “Incontri di Lorient” in Bretagna, su invito di quelli che allora venivano chiamati i “trans-courant” del PS e di cui ho fatto modestamente parte. Avevo potuto così fare in modo di essere al suo fianco, per due anni consecutivi, perché non voleva un posto riservato e prioritario. A differenza di molte personalità e non solo dei politici del momento, ministri e futuri ministri, francesi e stranieri, e non di secondo piano, lui è stato l’unica personalità a restare dall’inizio alla fine, ad ascoltare e seguire il nostro lavoro tutto il giorno e dall’inizio alla fine, senza voler essere davanti sul palco…e questo nonostante un’agenda molto più gravosa. Me lo ha appena confermato Jean-Pierre Bobichon: Jacques Delors, l’umanista cristiano-socialista europeo, era anche questo.