A partire dal Secondo Dopoguerra, i Trattati dell’Unione Europea, e in particolare la loro costituzione economica, sono stati fondati su valori prevalentemente mercantilistici: i Trattati sono stati scritti e modificati a più riprese attorno all’idea centrale del mercato unico europeo, uno spazio di libero scambio di fattori di produzione (merci, servizi, forza lavoro e capitali), privo di barriere e dazi doganali. Parallelamente, le costituzioni degli Stati membri o, meglio ancora, le rispettive costituzioni economiche hanno legittimato e garantito la strutturazione dei sistemi di welfare e del diritto del lavoro all’interno degli ordinamenti nazionali. Si è così mantenuto per diverso tempo un equilibrio fra i Trattati europei e le Carte costituzionali nazionali, fra la costituzione economica europea e quelle degli stati membri: nella separazione delle rispettive sfere di competenza, i Trattati hanno stabilito le disposizioni di base per la costruzione del mercato concorrenziale, mentre i Paesi membri hanno avuto la principale responsabilità nella definizione delle normative in materia di Stato sociale e tutela del lavoro. Negli ultimi decenni, per tutta una serie di motivazioni storiche, quest’equilibrio fra la pluralità delle costituzioni economiche è stato in qualche modo alterato: le nuove ricette di politica economica, diffuse a partire dagli anni Ottanta, e gli eccessi dei poteri imprenditoriali sovranazionali, hanno portato, da un lato, all’espansione dello spazio accordato alle libertà economiche, e, dall’altro, alla destrutturazione degli istituti del welfare e del diritto del lavoro.

L’introduzione di una disciplina normativa dei salari minimi a livello europeo risponde, pertanto, all’esigenza di rafforzare il quadro delle protezioni sociali a vantaggio dei lavoratori, riequilibrando gli assetti dei rapporti economici e commerciali a loro favore. Il paradosso di fondo sta nel fatto che l’Unione Europea non potrebbe occuparsi del salario minimo in modo unitario, non essendo possibile istituire un unico strumento comune di questo tipo a livello europeo. L’Unione Europea, infatti, ha la facoltà di intervenire per via legislativa in materia di salari minimi al plurale, potendo definire delle regole comuni agli Stati membri, nel rispetto dei vari meccanismi giuridici nazionali sulla quantificazione della retribuzione. Dopodiché, deve essere ciascuno Stato membro ad adottare il proprio quadro normativo nazionale, scegliendo fra una pluralità di soluzioni possibili. La stessa direttiva n. 2041 del 2022 dell’Unione Europea, infatti, è stata dedicata ai «salari minimi adeguati nell’Unione europea», riconoscendo la pluralità delle soluzioni presenti all’interno di ciascuno Stato membro per la definizione del quantum retributivo.

In seno ai Trattati, la base giuridica della direttiva n. 2041 del 2022 si trova nelle disposizioni in materia di politica sociale, in particolare nell’art. 153 TFUE. Questo articolo stabilisce la competenza complementare dell’Unione Europea in materia di «condizioni di lavoro» (art. 153, comma 1, lettera b TFUE) e la possibilità di adottare una serie di prescrizioni minime comuni agli Stati membri in questo ambito (art. 153, comma 2, lettera b TFUE).

Secondo la direttiva, «se fissati a livelli adeguati, i salari minimi, quali previsti dal diritto nazionale o da contratti collettivi, proteggono il reddito dei lavoratori, in particolare dei lavoratori svantaggiati, e contribuiscono a garantire una vita dignitosa» (punto 8 della premessa alla direttiva n. 2041 del 2022). La direttiva pertanto riconosce e disciplina due possibili soluzioni per la quantificazione del salario minimo, entrambe adottate dagli Stati membri dell’Unione Europea. La prima ipotesi prevede di affidare alla contrattazione collettiva la fissazione del minimo retributivo. La contrattazione consiste nelle negoziazioni che avvengono fra le organizzazioni datoriali e i sindacati dei lavoratori, per stabilire le condizioni basilari di occupazione e di impiego, fra le quali il salario è uno degli elementi principali. I recenti cambiamenti storici, come l’indebolimento dei sindacati, il mutamento delle strutture economiche e l’emergere di nuove forme di occupazione, hanno ridotto l’efficacia della contrattazione collettiva nella protezione del lavoro. In Italia, la quantificazione dei minimi salariali è stata tradizionalmente affidata proprio alla contrattazione collettiva.

La seconda ipotesi prevede la determinazione dei livelli salariali tramite la legge o altri atti giuridici aventi forza vincolante. Questa soluzione è adottata da molti degli Stati membri dell’Unione Europea, fra i quali alcuni Paesi di primo piano come Francia, Spagna e Germania. Tuttavia, non è soluzione universalmente adottata, come dimostra l’eccezione dell’Italia.

In questo contesto generale, la funzione della direttiva n. 2041 del 2022 nella disciplina della materia della retribuzione lavorativa è quella di stabilire dei criteri uniformi a livello europeo per la determinazione e l’aggiornamento del salario minimo tramite legge. Tali criteri, specificati nell’art. 5 della direttiva, devono essere recepiti nei rispettivi ordinamenti giuridici nazionali degli Stati membri che scelgano la via legale per la quantificazione del salario minimo. Tra i criteri elencati, ci sono «il tasso di crescita dei salari», «il potere d’acquisto (…) tenuto conto del costo della vita», «la produttività», «il livello generale dei salari e la loro distribuzione». Il che vuol dire che, mentre la direttiva fornisce delle disposizioni comuni e degli obiettivi generali in materia di salario minimo legale, sono poi i singoli Stati membri che devono predisporre la propria legislazione nazionale in materia, seguendo però quelle prescrizioni comuni fissate a livello europeo che rappresentano il minimo comune denominatore.

Dopodiché, non si può trascurare come la direttiva n. 2041 del 2022 abbia introdotto anche disposizioni per promuovere l’estensione e il potenziamento della contrattazione collettiva, ove essa sia il metodo privilegiato nei contesti nazionali. Non è detto, pertanto, che ogni Stato membro ricorra alla via legislativa per la determinazione del salario minimo: è possibile anche la soluzione alternativa della contrattazione collettiva, che però deve rispettare alcune condizioni di fondo, poste dalla stessa direttiva, fra le quali ad esempio quella di garantire un adeguato «tasso di copertura» delle varie categorie lavorative non inferiore all’80% (art. 4 comma 2 direttiva n. 2041 del 2022).

Il fine ultimo della direttiva n. 2041 del 2022 è legittimare e rafforzare i meccanismi di quantificazione dei salari minimi, sia attraverso la legge sulla retribuzione, sia mediante la contrattazione collettiva. In questo contesto, non è stata imposta una soluzione obbligatoria, consentendo agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità nella scelta del meccanismo più idoneo, sia che si tratti di un provvedimento legislativo, sia che si tratti della negoziazione fra le parti sociali.

Se si guarda al caso dell’Italia, si può dire che negli ultimi anni il tema del salario minimo sia tornato al centro del dibattito. Nelle ultime due legislature, sono state depositate in entrambi i rami del Parlamento numerose proposte di legge per l’istituzione del salario minimo legale. Sempre sul tema del salario minimo legale, è stata registrata un’ampia convergenza in Parlamento fra i partiti di opposizione (PD, Movimento Cinque Stelle, AVS, Più Europa e Azione), che hanno individuato una piattaforma programmatica comune su questo tema e hanno organizzato una campagna di sensibilizzazione nel corso del 2023. Quella dell’introduzione del salario minimo legale, però, non è una soluzione giuridicamente imposta da parte della direttiva n. 2041 del 2022: si può dire, invece, che la direttiva abbia migliorato le condizioni di contesto per istituire il meccanismo del salario minimo legale anche in Italia. In assenza di un qualsiasi vincolo europeo sul punto, un’altra questione è ragionare nei termini dell’opportunità politica dell’introduzione di una nuova legge. Che una legge sul salario minimo possa essere effettivamente utile in Italia è sicuramente vero. L’esigenza è effettivamente avvertita da una parte significativa della popolazione italiana, che ha sottoscritto la piattaforma programmatica delle opposizioni, così come (soprattutto) dai quasi tre milioni di lavoratori poveri che sono attivi nel nostro Paese.

Il percorso per arrivare, anche in Italia, all’approvazione della legge sul salario minimo sembra essere, in ogni caso, ancora piuttosto complesso. Il sasso è stato gettato nello stagno e il dibattito sul punto è stato aperto. Compito del giurista sarà quello di monitorare la discussione sul tema e vagliare le proposte di disciplina legislativa avanzate in tal senso.

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Enrico Verdolini

Enrico Verdolini è Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale della Scuola Sant’Anna di Pisa e Dottore di ricerca dell’Università di Bologna