1.Struttura e sovrastruttura
Il fatto che la ricchezza eserciti una profonda influenza sulla personalità degli individui e sulla società nel suo complesso è sempre stato ritenuto un dato di puro buonsenso. Ma che l’economia abbia un ruolo preponderante sulla vita sociale in tutti in tutti i suoi aspetti – comprese la politica, i costumi e la cultura – è un’osservazione meno ovvia. Presuppone, infatti, un’analisi comparata delle condizioni in cui avvengono la produzione e la circolazione dei beni in diverse società. Secondo Paul Ricoeur, Karl Marx (1818 – 1883), Friedrich Nietzsche (1844 – 1900) e Sigmund Freud (1856 – 1939) hanno svelato che la coscienza che abbiamo di noi stessi e del mondo, essendo un prodotto sociale, è intrinsecamente “falsa”. Infatti la società non è come appare, ma cela al suo interno dei meccanismi non immediatamente visibili, che però dominano inesorabilmente le nostre vite[1]. Il compito assunto da Marx e dagli altri “maestri del sospetto” fu scoprire questi meccanismi (rispettivamente le strutture economico-sociali, la volontà di potenza e l’inconscio), demistificando la falsa coscienza che li nasconde ai nostri occhi. Rovesciate queste pretese certezze, si sarebbe così costruita una nuova visione del mondo, capace di liberare l’uomo dall’alienazione.
L’autore che più di ogni altro ha legato il suo nome a una compiuta teoria dei modi di produzione, partendo da una critica del capitalismo, è certamente Marx. Fu il pensiero marxista a rendere popolare la dialettica tra la Struktur economico-sociale e la Superstruktur giuridica, politica, ideologica che si relaziona con essa. Nell’Ideologia tedesca di Marx ed Engels (1846), e in molte altre opere, si delinea infatti una concezione materialistica della storia, che parte dalla premessa che l’umanità riesce a vivere solo attraverso la produzione dei beni, consentita dall’utilizzo delle “forze produttive” (cioè il lavoro, la conoscenza e le risorse naturali), combinate in diverso modo. Non solo le condizioni dell’esistenza umana, ma anche le istituzioni e la stessa cultura sono determinate, in ultima istanza, da questi “rapporti di produzione” (ovvero struttura) della società. Sono specifiche forme di relazione con la natura e tra gli uomini, che caratterizzano le varie società in diversi momenti storici. I meccanismi con cui opera la struttura non sono necessariamente evidenti. Spesso sono celati da ideologie funzionali alla perpetuazione del sistema: si pensi, ad esempio, alla religione, “oppio del popolo”[2].
Pochi sanno che l’idea di un meccanismo di interazione tra struttura e sovrastruttura fu precorsa dall’inglese James Harrington nel 1656, all’epoca del regime rivoluzionario di Cromwell. Il suo romanzo utopico The Republic of Oceana prefigurava un’Inghilterra aristocratica, governata da un’élite di proprietari terrieri, con una costituzione di tipo liberale, che distingueva il potere legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. Come in tutti gli stati, anche in Oceana le istituzioni politiche, erano solo delle sovrastrutture (superstructures), il cui fondamento reale (foundation) stava nell’economia. Infatti, la causa che determina sempre l’assetto istituzionale (efficient cause of government), secondo Harrington è la proprietà del principale strumento produttivo, cioè la terra. Il potere politico altro non è che il meccanismo di protezione di un equilibrio sociale, che deriva dalla distribuzione ineguale della proprietà terriera.
Harrington distingue tre tipi fondamentali di governo, funzionali a diversi equilibri sociali: la monarchia assoluta, se la terra appartiene interamente o per la massima parte al sovrano; la monarchia limitata (o governo misto), quando prevalgono la nobiltà e il clero; la democrazia, nella quale la proprietà è suddivisa in maniera tale, da non consentire la supremazia di una persona o di un gruppo sociale[3]. Se si si cambiasse la distribuzione della proprietà, si modificherebbe la bilancia del potere (empire follows the balance of property)[4]. Se si vuole evitare il dispotismo, è perciò indispensabile che né lo Stato né i privati accumulino troppe proprietà.
L’opera di Harrington, che esercitò una grande influenza non solo sul pensiero politico delle rivoluzioni americana e francese, ma anche sulla sinistra ottocentesca, non viene mai citata espressamente da Marx. È evidente, però, che la terminologia e in parte lo schema del ragionamento marxiano è analogo a quello dell’autore di Oceana. C’è però una decisiva differenza: nella concezione materialistica della storia di Marx, anche il diritto di proprietà rientra nella sovrastruttura. Il potere è, infatti, determinato da un meccanismo ancora più fondamentale della balance of property: i rapporti sociali attraverso i quali l’uomo riproduce le condizioni della sua esistenza.
2.Essere e coscienza
Marx arrivò alla sua concezione materialistica partendo da un’esigenza connaturata a tutto il pensiero hegeliano, nel cui ambito aveva continuato a muoversi anche dopo la morte di Friederich Hegel (1831): cioè scoprire il senso e le leggi dello sviluppo storico. La storia, infatti, non è un succedersi casuale di avvenimenti, ma è mossa da una logica interna, di carattere dialettico, cioè conflittuale, nel quale la struttura determina in ultima istanza la sovrastruttura, la quale però è capace di controreagire sui rapporti di produzione. Da questa limitata ma importante autonomia della sovrastruttura deriva la possibilità, evidenziata soprattutto da Gramsci, che il proletariato conquisti l’egemonia culturale prima della rivoluzione, cioè all’interno della società capitalista[5].
Per Hegel, lo Spirito assoluto agisce nella storia razionalmente, favorendo nell’uomo una sempre più profonda coscienza di sé e del mondo, e quindi una maggiore libertà. Nelle Lezioni sulla filosofia della storia (pubblicate postume nel 1837), il filosofo spiega che nel mondo orientale solo il sovrano è libero; in quello greco-romano, sono liberi soltanto alcuni; in quello germanico, che è il culmine della storia umana, sono liberi tutti, cioè è libero l’uomo in quanto tale. Ogni tappa dello sviluppo storico (dal mondo orientale a quello greco-romano, e infine all’età germanica) non consiste nella semplice distruzione di quella precedente, ma in una nuova sintesi, che la trascende.
Marx, nell’Introduzione alla Critica dell’economia politica, rovescia quest’impostazione: non è la coscienza a determinare l’essere, ma al contrario, è l’essere (cioè le condizioni materiali e la struttura produttiva della società) a determinare in ultima istanza la coscienza (cioè la visione del mondo). In nuce, questo è il punto di partenza filosofico di un metodo di indagine socio-economica, che il suo amico Engels denominò poi “materialismo storico”. Non si tratta – almeno per Marx – di una forma di materialismo metafisico, e nemmeno di una visione positivista basata sulla fiducia ingenua nel progresso. È “materialista” nel senso che costituisce una critica radicale della concezione idealistica della storia[6].
La teoria di Marx, che si vuole non ideologica ma scientifica, si basa sul principio che “la storia della società è la storia della sua produzione materiale e delle contraddizioni delle forze produttive materiali con i rapporti di produzione che sorgono e si risolvono nel loro sviluppo”. La produzione non è mai un’attività puramente privata. È piuttosto un processo sociale, che coinvolge i mezzi di produzione (le macchine, la terra, gli utensili…), chi li possiede o comunque li controlla, e chi direttamente lavora con essi. Lo sviluppo delle “forze produttive”, cioè del lavoro umano applicato ai mezzi di produzione, è alla base delle grandi trasformazioni della struttura sociale, che si possono rilevare sia nella storia dell’Occidente che in quella delle altre grandi aree geopolitiche.
Il problema di Marx non è come fondare una filosofia materialista in senso stretto. Sarà Engels, nella incompiuta Dialettica della natura (1882), a tentare la strada di un “materialismo dialettico”, applicato non soltanto alla società, ma anche alla natura: per cui, anche i fenomeni chimici e biologici sarebbero di carattere dialettico. Fu seguito da Lenin nel Materialismo ed empiriocriticismo (1909), testo canonico nelle università sovietiche, che sosteneva la corrispondenza tra la percezione della realtà e la sua esistenza oggettiva. Dal 1900 (anno in cui Max Planck introdusse nella fisica il concetto di “quanto”) e soprattutto dal 1927, quando Werner Heisenberg enunciò il principio di indeterminazione, questo tipo di materialismo appare del tutto superato. Nelle Università dei paesi avanzati non esiste oggi probabilmente nessun ricercatore che creda ancora nell’esistenza di oggetti “materiali”, che esistono in un luogo e in un tempo determinato, indipendentemente dalla relazione con gli altri fenomeni.
3.Modi di produzione
Nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx ed Engels avevano individuato in ciascuna società concretamente esistente (ökonomische Gesellschaftsformation, “formazione economico-sociale”) una sovrastruttura e una struttura produttiva, proprio come Harrington. Qualche anno dopo, nell’Introduzione alla Critica dell’economia politica, Marx precisava: “Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita […]”.
Il processo storico si sviluppa per successive crisi rivoluzionarie, determinate dalla contraddizioni tra il modo di produzione e la tendenza allo sviluppo delle forze produttive: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura […]. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società”[7].
Cos’è, dunque, un modo di produzione? È l’insieme delle forze produttive e dei rapporti di produzione che consentono il loro utilizzo. Ad esempio, nella società romana, gran parte della produzione avveniva tramite aziende agricole (villae), i cui proprietari (domini), erano anche proprietari dei lavoratori (servi). Su questa base materiale, si elevava una gigantesca sovrastruttura, fatta di cultura, visioni del mondo, istituzioni, che giustificavano e proteggevano la struttura economico-sociale. Nella società schiavistica romana il controllo dei mezzi di produzione era rafforzato dal diritto (sia la terra che gli schiavi appartenevano al dominus), da istituzioni congegnate in maniera da assicurare il potere ai padroni, e anche da una visione del mondo che considerava la schiavitù come un fatto del tutto naturale e positivo.
I modi di produzione che si sono affermati nel corso della storia sono quasi tutti forme (Formen) di sfruttamento dei lavoratori, cui corrispondono specifici sistemi di appropriazione del surplus, con due notevoli eccezioni: il modo di produzione ‘primitivo’ (nel quale non c’erano ancora né classi sociali né proprietà privata) e quello ‘mercantile semplice’ (nel quale operano coltivatori diretti e artigiani). A parte, andrebbe considerato il socialismo, culmine della storia umana, con la finale e utopica transizione al comunismo. Si tratta di concetti generali, come Marx ed Engels non esitano a dichiarare nell’Ideologia tedesca (1845-46): la realtà è certo più complessa di queste schematizzazioni. Ad esempio, è raro che una società sia caratterizzata da un solo modo di produzione. Se guardiamo all’Italia contemporanea, che è una formazione economico-sociale soprattutto capitalista, possiamo trovare accanto ai rapporti di produzione dominanti, delle forme di produzione mercantile semplice e addirittura casi di schiavitù. Quindi, si può verificare in una stessa società l’esistenza di classi e gruppi sociali riconducibili a diversi modi di produzione. In una società complessivamente capitalistica, non tutti i rapporti socio-economici sono capitalistici. In realtà tutte le società, dal punto di vista socio-economico, sono “miste”.
I rapporti di produzione sono generalmente basati sul predominio di chi controlla i mezzi e le condizioni del lavoro, cioè su una situazione di sfruttamento dei lavoratori. Il fatto che nella produzione intervengano figure con poteri (e quindi anche redditi) altamente differenziati, determina la divisione della società in “classi”, cioè in grandi gruppi sociali, composti da persone che svolgono la stessa funzione all’interno del processo produttivo e condividono un particolare rapporto con i mezzi di produzione. Ad esempio, una società capitalistica implica l’esistenza di datori di lavoro e di lavoratori subalterni obbligati da contratti. Evidentemente funzioni, condizioni sociali e interessi di queste figure tendono a confliggere. Nel Manifesto, Marx ed Engels dichiarano che “la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi”. In particolare nel sistema capitalistico, l’operaio – che giuridicamente è un uomo libero che tratta da pari a pari col padrone – in realtà è alienato, nel senso che lavora per altri, non controlla le modalità del processo produttivo, né dispone del prodotto: è in sostanza egli stesso uno strumento. Il valore che egli produce gli viene solo in parte restituito in forma di salario, il più delle volte appena sufficiente a soddisfare i bisogni essenziali. Il resto (plusvalore) viene appropriato dal padrone.
Marx ed Engels avevano proposto nel Manifesto una visione deterministica e unilineare della storia, scandita da una successione di cinque stadi, ciascuno caratterizzato da un modo di produzione (comunità primitiva, MP asiatico, schiavismo, MP feudale, capitalismo). La storia subisce uno sviluppo, caratterizzato dalla transizione da un modo di produzione a un altro, in una sequenza più o meno tipica, almeno in Occidente. Come abbiamo visto, la causa di questo fenomeno è costituita dallo sviluppo delle forze produttive, che prima o poi entra in contraddizione con il modo di produzione dominante, mettendolo in crisi e determinando il superamento della struttura sociale precedente. La transizione da un modo di produzione all’altro (che dovrebbe consentire uno sviluppo superiore delle forze produttive) avviene fino ad un certo punto in maniera graduale, per assumere infine la forma accelerata e traumatica di una “rivoluzione sociale”.
Il metodo storico di Marx, in mano ai suoi epigoni della II Internazionale e della III, venne impoverito e ridotto a ideologia:il cosiddetto “diamat” marxista-leninista. In realtà, la teoria marxista è più sofisticata dello schema esposto nel Manifesto, che poi verrà ulteriormente semplificato dal materialismo storico sovietico. Marx non parla di leggi universali, ma di linee di tendenza, empiricamente rilevabili in particolari epoche storiche e aree geografiche. D’altra parte, anche la realtà storica è più complessa di come viene rappresentata nelle opere di Marx e di Engels. Il superamento rivoluzionario del sistema capitalistico, mediante la socializzazione dei mezzi di produzione, avrebbe consentito l’instaurazione di una società socialista e, in una fase più avanzata, l’abolizione dello Stato e del lavoro salariato. Alla ‘fine della storia’ si applicherebbe, dunque, il principio comunista “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Non è successo questo. La caduta del Muro ha invece definitivamente dimostrato che la strada intrapresa dalle rivoluzioni del Novecento non portava affatto allo sviluppo di società più produttive o più giuste del capitalismo, e meno che mai al superamento dello Stato. Anche sul piano teorico (economico, storico, sociologico) le teorie marxiane hanno da molto tempo evidenziato i loro limiti. Ad esempio, la teoria che che è il lavoro a determinare il prezzo medio delle merci e che il plusvalore si forma all’interno del ciclo produttivo e si è dimostrata effettivamente utilizzabile dagli economisti (o dagli imprenditori, dai commercianti, dai sindacalisti) per spiegare le crisi o per analizzare la formazione dei prezzi di mercato.
La ricerca storica ha anche dimostrato che i modi di produzione non sono soltanto quelli delineati sommariamente nel Manifesto; che non necessariamente il concetto di ‘classe’ è applicabile ai modi di produzione pre-capitalistici; e non è nemmeno vero che le transizioni da un sistema all’altro abbiano un carattere necessariamente rivoluzionario[8]. La consapevolezza di tutti questi problemi non dovrebbe necessariamente portare all’abbandono del marxismo come (un) metodo delle scienze sociali, ma piuttosto a una sua ‘de-ideologizzazione’. Si può decostruire lo stesso marxismo con strumenti analitici marxisti, separandone l’aspetto scientifico da quello filosofico e politico. Se è davvero una teoria scientifica, non può essere considerato come lo strumento specifico di una classe sociale, o di una ideologia politica. A queste condizioni, la teoria dei modi di produzione rimane indispensabile per comprendere le società del passato, almeno fino alla creazione di Internet nel 1969. Ma dobbiamo porci un problema che riguarda piuttosto il presente e il futuro: il metodo marxista può rimanere uno strumento di analisi utile per decifrare il capitalismo tecnocratico attuale? E può ancora servire alla sinistra riformista, che ha tentato di domare il capitalismo mediante il Welfare State keynesiano, e ora si trova a fronteggiarne la furiosa reazione?
[1] Cfr. Paul Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud (1965), tr. it. Il Melangolo, Genova, 1991, pp. 43-44. L’iniziatore della “scuola del sospetto” sarebbe il Nietzsche di Umano troppo umano (1878-79).
[2] Cfr. Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel (1842-43), trad.it. Editori Riuniti, Roma, 1983, p.129.
[3] James Harrington, La Repubblica di Oceana, tr. it. Utet, Torino, 2004, pp. 15 ss.
[4] James Harrington, op. cit., Introduzione di Giuseppe Schiavone, pp. XXXIX ss.
[5] Cfr. in generale Eugenio Laclau, Chantal Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics (1985)³, Verso, London, 2014, pp.
[6] Cfr. Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (1899), Laterza, Roma-Bari 1968, pp. 6 ss.
[7] Cfr. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica (1859), tr. it. New Compton, Roma 1972, pp. 10-11.
[8] Cfr. in generale Mario Vegetti (cur.), Marxismo e società antica, Feltrinelli, Milano 1977.