Cina, una visione condizionata dai nostri pregiudizi ideologici
Non possiamo che stupirci della miopia dell’Europa nei confronti della Cina. Meno di vent’anni fa, la Cina era considerata paternalisticamente un paese in via di sviluppo che aveva bisogno di essere aiutato allo stesso modo del Niger. Poi, all’improvviso, abbiamo scoperto quello che l’Europa chiama simpaticamente un rivale strategico, che non solo ci domina economicamente, ma anche tecnicamente, addirittura che ci precede nella ricerca di una transizione ecologica.
Come spiegare questa miopia? Nella mia esperienza personale, nasce da ragioni molto semplici. Per secoli non ci siamo mai interessati alla Cina in sé, ad eccezione, ovviamente, di alcune personalità e istituzioni, di cui il gesuita Matteo Ricci resta il simbolo, ma come specchio che ci rimandava alla nostra stessa realtà o attraverso una griglia di lettura legata alla nostra propria idea di universale.
Ricordiamolo. Nel XVIII secolo, il fascino dei filosofi per una società che aveva saputo instaurare la meritocrazia da noi sognata, attraverso i concorsi imperiali. Era anche il periodo in cui si credeva di ritrovare nella scrittura cinese la scrittura universale che aveva preceduto la costruzione della Torre di Babele e la disgregazione dell’umanità in lingue incomunicabili tra loro. Ciò che seguì, meno di un secolo dopo, quando gli appetiti coloniali dell’Europa si acuirono, fu l’immagine di un’Asia condannata per natura a regimi autoritari, soggetta per sempre a un “dispotismo asiatico” che fungeva da ostacolo per le società che cercavano pari diritti e regimi democratici.
Dobbiamo leggere i libri popolari della fine del XIX secolo: una Cina pigra e sottomessa, i cui leader si accasciavano nelle sale fumatori per consumare l’oppio che li avevamo costretti a comprare.
Una parentesi all’inizio del XX secolo, quando la Cina tentò a sua volta la democrazia con Sun Yat Sen, in diretto collegamento con le influenze europee e americane. La Cina sarebbe diventata comprensibile per noi? Alla fine, avrebbe assomigliato a noi. E anche la creazione del Partito Comunista Cinese nella Concessione Francese di Shanghai, con una rivista originariamente scritta in francese sotto l’influenza di leader che avevano esperienza di lavoro in Europa, che sollievo!
Errori di lettura
Stesso errore di lettura dopo l’avvento al potere del Partito comunista e di Mao Tse Tung nel 1949. Questo comunismo, ereditato dal marxismo, non era forse il miglior esempio dell’universalismo europeo? Da allora in poi il resto è stato letto non attraverso gli sconvolgimenti del nuovo regime ma attraverso i dibattiti specifici dell’Europa: la rivalità tra comunismo e capitalismo, i dibattiti che hanno attraversato il comunismo, tra la forma di stato e di capitalismo autoritario che ha preso e modella l’Unione Sovietica e una romantica, più attaccata all’ideologia iniziale dell’uguaglianza e delle comuni di base.
È proprio questo filtro distorsivo della lettura della Cina che ha portato molti intellettuali europei a vedere nella Rivoluzione Culturale non la tragedia che fu, che distrusse ogni famiglia cinese, ma come il tentativo di avvento di un comunismo utopico.
Ricordiamo la pubblicazione, all’inizio degli anni ’70, nel pieno della rivoluzione culturale, del primo libro di Simon Leys, “The Forest on Fire”, una cronaca scritta da Hong Kong delle lotte di potere riflesse nella rivoluzione culturale, scritta a partire da documenti provenienti dalla stessa Cina continentale.
Simon Leys, trattato da agente della CIA, ignaro della vera Cina, uno scribacchino incompetente e presto bandito dall’Università francese, per la semplice ragione che ciò che dice della realtà non coincide con ciò che i nostri intellettuali preferiscono immaginare. Simon Leys che ha impiegato più di 30 anni per riabilitarsi senza che i suoi censori dell’epoca, con poche eccezioni, si fossero veramente scusati con lui prima della sua morte. No, all’epoca piacevano i resoconti entusiastici delle missioni di piccoli gruppi di filocinesi, inviati in Cina e debitamente corrotti dal Partito Comunista Cinese, per tornare e raccontarci una Cina da sogno, sullo stile di Maria Antonietta Macciocchi e del suo libro “Sulla Cina” scritto dopo un viaggio di tre settimane e senza parlare una parola di cinese.
Poi venne la caduta del maoismo.
La fine della rivoluzione culturale. L’apertura voluta da Deng Hsiao Ping. E all’improvviso la Cina non era più il modello della sognata società egualitaria, ma una forma senza precedenti di combinazione di imprenditorialità, sviluppo tecnologico e una vigorosa strategia statale. Sullo sfondo di un desiderio incrollabile di vendetta storica nei confronti dell’Occidente, che non volevamo vedere e che fonda la legittimità di un Partito Comunista Cinese che incarna il ritorno di una Cina potente. Make China great again.
Poi sono arrivate le “tesi sul buongoverno”….
Poi sono arrivate le tesi propagate dalle fondazioni conservatrici americane e dalle istituzioni finanziarie internazionali sul buongoverno. Intanto, gli eventi di Tiananmen hanno trasformato la Cina dallo status di modello a quello di anti-modello del comunismo utopico: un regime autoritario che non esita a massacrare i propri giovani per non perdere la faccia quando Michael Gorbachev stava per arrivare in visita ufficiale.
Il mio primo viaggio in Cina risale al 1992, proprio in un’epoca in cui le élites illuminate e gli autoproclamati progressisti occidentali vedevano la Cina come un anti-modello.
Da parte mia, sono andato lì convinto che le grandi sfide dell’umanità fossero diventate globali, che i rapporti tra le società non assomigliassero più ai vecchi rapporti tra villaggi vicini che commerciavano, si scontravano ma dove tutti tornavano a casa alla fine della giornata, ma assomigliavano piuttosto a coinquilini nello stesso appartamento che dovevano imparare a condividere spazi e risorse. Il mio approccio con la Cina è stato quindi decisamente pragmatico. A volte, gli studenti cinesi alle conferenze in questa o quella città della Cina mi chiedevano con un po’ di sospetto “come mai ami così tanto la Cina”? Con il sottinteso, perché questo era quello che erano abituati a vedere sfilare, che avessi qualcosa da vendergli, ideologia o tecnologia. Invariabilmente rispondevo: “Non mi piace la Cina più dell’America o dell’Africa. So semplicemente che per affrontare le sfide comuni dovremo collaborare e, per questo, iniziare con il rispetto e la comprensione reciproca”.
Durante questa prima visita, che shock ho avuto per l’opportunità di scoprire una nuova città. Azienda cinese attualmente in fase di assunzioni a sud di Canton: finanziata da un miliardario di Hong Kong, nato povero tra i poveri su un sampan, che ha fatto fortuna aggirando l’embargo sui medicinali destinati alla Cina durante la guerra di Corea e allo stesso tempo vicepresidente a Pechino dell’Assemblea nazionale cinese. Già, questa mescolanza di generi era, lo ammetto, un po’ sorprendente, almeno per un europeo. E soprattutto, in questa città in costruzione, ho scoperto le formidabili infrastrutture che si stavano realizzando per la futura università. Cominciavo a capire che stava emergendo una società capace di pianificare a lunghissimo termine e che avrebbe puntato in modo massiccio sulla diffusione della conoscenza scientifica e tecnologica.
Niente di tutto ciò era percepibile alla luce delle idee anglosassoni dominanti dell’epoca, sulla fine della storia e sui principi universali del buongoverno.
Alla fine degli anni ’90, il Ministero degli Affari Esteri francese ha deciso di pubblicare un’opera sul buongoverno e sullo sradicamento della povertà estrema. Mi ha affidato il capitolo sull’”eccezionalismo cinese”. Infatti, sulle curve di regressione apprese stabilite dalle istituzioni internazionali per mostrare la correlazione tra il rispetto dei principi di buon governo e l’eliminazione della povertà estrema c’era un valore anomalo: la Cina. La regressione non è stata in alcun modo ponderata in base alla popolazione. Anche in questo caso si potrebbe dire che “la Cina è un’anomalia”, così come si sarebbe detto “il Burkina Faso è un’anomalia”. Niente illustra meglio la potenza dei pregiudizi ideologici di questa osservazione. Perché le stesse istituzioni internazionali che spiegavano che solo i principi di buongoverno sullo stile della Banca Mondiale permettevano di ridurre la povertà estrema, pubblicavano allo stesso tempo dati che mostravano che, negli ultimi dieci anni, il 60% della riduzione della povertà estrema nel mondo era dovuta solo alla Cina!
Non si può che restare confusi da una tale stupidità, una tale miopia volontaria. Poi è arrivata l’integrazione della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Finalmente la Cina, entrando nel grande gioco della competizione globale, avrebbe somigliato a noi! Il discorso dominante che ebbe luogo allora aveva una sorprendente somiglianza con quello tenuto sul Giappone vent’anni prima. Ricordiamo l’espressione sprezzante di Edith Cresson, allora primo ministro francese, nel 1991 sulle “formiche giapponesi”. Questa volta la Cina è diventata la fabbrica del mondo. L’Europa e gli Stati Uniti avrebbero stabilito lì, ma sotto il loro controllo, tecnologie all’avanguardia per beneficiare di questa forza lavoro schiavizzata da decenni di regimi autoritari. Si crea così un’immagine miserabile della Cina, ridotta ai suoi lavoratori della Foxconn, il colosso taiwanese che riforniva di pezzi di ricambio le major dell’informatica mondiale, chiusi in dormitori con le sbarre alle finestre per impedire loro di suicidarsi. Non dico che questa realtà non esistesse. Esisteva, certo, ma oscurava ai nostri occhi ingenui la potente economia autonoma che si stava costruendo. In breve, ancora una volta, eravamo passati dal guardare a una Cina utopica a guardare a una Cina capace di eseguire, ma certamente non di innovare e intraprendere. Per parte mia, andando regolarmente in Cina, vedevo al contrario la velocità con la quale era in procinto di dotarsi di una nuova élite economica e tecnica. Alla fine degli anni ’90, ho fatto una conferenza nel nord della Cina a Harbin, nel quadro di una delle nove università di eccellenza della Cina, una di quelle in cui si entra con 19 e mezzo di media alla licenza media superiore. Ancora una volta, visitare la nuovissima biblioteca universitaria, aperta sette giorni su sette e 24 ore su 24, la mensa universitaria, che offre piatti provenienti da tutte le regioni della Cina, mi ha fatto capire cosa stava realmente accadendo nel dominio spaziale poiché quella era la specificità di questa università. E dal 2005 al 2010 ho ospitato il forum China Europa che mirava, come ho fatto negli anni ’90, a costruire un dialogo tra le società cinesi ed europee sulle nostre sfide comuni. Abbiamo dovuto superare una certa riluttanza iniziale da parte europea. Che senso ha, mi è stato detto, dialogare con i rappresentanti della società cinese? Parlerebbero con una sola voce, ripetendo gli slogan del Partito Comunista! Qual è stata la sorpresa dei partecipanti quando hanno scoperto, al contrario, cinesi che non erano d’accordo tra loro, che parlavano con una sorprendente libertà di tono, anche se in ogni seminario era necessariamente presente un osservatore del Partito Comunista, dimostrando spesso che le differenze tra europei e le differenze tra cinesi erano maggiori delle differenze tra il punto di vista cinese e quello europeo.
Silenzio assordante dei media europei!
Questo forum è stato oggetto di un’ampia copertura mediatica in Cina, in particolare attraverso le reti digitali. Ebbene, un silenzio assordante da parte dei media europei! Come mi disse all’epoca il rappresentante in Cina di un importante settimanale francese: “Il nostro caporedattore vuole solo sentire brutte notizie sulla Cina. Se dico qualcos’altro mi dicono: ‘È ora di tornare in Francia, sei avvelenato dalla propaganda del Partito comunista cinese’ ”.
Michel Rocard si è appassionato al nostro forum fin dall’inizio. Ha quindi approfittato della sua posizione di deputato al Parlamento europeo per ottenere il voto del Parlamento a favore di un sussidio per il dialogo tra la società cinese e quella europea. Questa sovvenzione doveva ancora essere inclusa in una delle linee di bilancio dell’Unione europea. Tuttavia, non esisteva alcuna linea di bilancio per finanziare un dialogo egualitario con una società così lontana da noi come la Cina. La burocrazia di Bruxelles ha quindi trasformato questo sussidio per integrarlo nell’unica linea di bilancio che sembrava corrispondere alle deliberazioni del Parlamento: “Sostegno ai Paesi in via di sviluppo”. Lo stesso che ha finanziato la cooperazione tecnica con il Niger.
Hai letto bene: nel 2010, meno di quindici anni fa. E ovviamente non è stato il China Europa Forum ad ottenere il sussidio. Ha dovuto chiudere le porte….