L’economia sociale ha incontrato all’uscita della pandemia da Covid-19 una finestra di grande attenzione a livello internazionale. Il Piano di azione dell’Unione Europea sull’Economia Sociale, la Raccomandazione dell’Ocse , la Raccomandazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sul lavoro dignitoso e l’economia sociale e solidale hanno avviato un percorso di discussione ed azione volto a rafforzarla.
Questi documenti riconoscono la sopravvalutazione, a lungo perpetrata, della capacità del mercato di generare uno sviluppo inclusivo e l’eccessiva attenzione all’obiettivo della creazione di valore a scapito di una valutazione dei canali attraverso cui questo avviene, delle modalità in cui esso viene o meno redistribuito, delle conseguenze ultime di un modello trainato dalla creazione di profitto.
Queste iniziative supportano l’uscita dell’economia sociale dalla condizione di marginalità in cui è stata collocata sino ad ora, impegnata soprattutto a riparare “gli effetti collaterali” di un modello economico escludente, e ambiscono a farla diventare il mainstream ossia la strada maestra, il modello economico e di business prevalente.
Ma come e perché si è arrivati a queste svolte, per nulla scontate e piuttosto radicali?
Se volgiamo lo sguardo all’Europa degli ultimi vent’anni, l’asse portante delle politiche di sviluppo è stata la Strategia di Lisbona del 2001, che aveva come obiettivo principale “rendere l’Europa l’economia della conoscenza più competitiva al mondo”, attraverso la creazione di un mercato unico, uno spazio di libera circolazione di beni e persone in cui la competizione potesse svilupparsi con senza grandi vincoli da parte dei singoli Stati. Il focus in sostanza era sul mercato e sulla sua capacità di generare crescita economica.
Dell’equità della distribuzione della ricchezza prodotta in quella fase ci si preoccupava poco, la visione politica dell’economia era permeata dalla convinzione che la crescita, generata dalla competizione sul mercato, avrebbe automaticamente portato benefici diffusi e coesione sociale. Non a caso, nella strategia di Lisbona si esplicitava che per combattere la povertà fosse necessario (e in larga parte sufficiente) creare occupazione. Il lavoro era dunque la strada maestra per contrastare la povertà.
Solo molto dopo, soprattutto a partire dalla grave crisi finanziaria del 2008, seguita dalla recessione globale e dalla crisi del debito sovrano sull’area euro, si sono affacciate progressivamente questioni impensabili un paio di decenni prima: la povertà non colpisce solo chi non lavora, ma anche chi ha un’occupazione e la crescita economica non porta automaticamente benefici diffusi, anzi, pare essere associata ad una distribuzione strutturalmente asimmetrica a beneficio di una quota molto piccola della popolazione. Su questo tessuto ormai palesemente fragile ha poi colpito la pandemia, esasperandone le ricadute economiche e sociali.
L’Europa, come sappiamo, reagisce agli effetti della pandemia con un cambiamento radicale della sua politica economica: viene abbandonata (temporaneamente?) l’austerità per abbracciare il Next Generation EU, un grande piano di investimenti infrastrutturali per “trasformare l’economia e la società” europea. È in quella fase che si riapre l’attenzione delle politiche a ciò che era stato a lungo trascurato o sottostimato, ovvero gli effetti sociali del capitalismo neoliberista. Emerge la consapevolezza che il mercato unico non basta a fare dell’Europa un territorio unito, coeso, inclusivo ed inoltre, così come interpretato e costruito sino ad allora, genera effetti sociali non solo ingiusti sotto un profilo etico, ma anche pericolosi poiché, acuendo l’esclusione, mina nel profondo la partecipazione e i processi democratici.
In questo contesto nasce, assieme ad altre iniziative legate al pilastro dei diritti sociali, ma fortemente ancorato alla strategia industriale europea, il Piano d’azione per l’economia sociale, ovvero una politica volta al sostegno di un sistema economico il cui motore è la risposta ai bisogni ed aspirazioni sociali e non la massimizzazione del profitto.
Come ben illustrato da Salvatori e Guerini, il concetto di economia sociale è stato adottato in quanto ritenuto più adatto a ricomprendere in un’unica definizione il grande pluralismo europeo delle forme organizzative che si contraddistinguono per il fatto di essere entità private, indipendenti dai poteri pubblici, fondate sul primato delle persone e delle finalità sociali o ambientali rispetto alla ricerca del profitto, vincolate a reinvestire la maggior parte dei propri profitti in attività di interesse collettivo o generale, e infine gestite secondo criteri democratici o comunque partecipativi.
L’attribuzione di un perimetro definito di cosa si intenda per economia sociale o, meglio, di chi appartenga all’economia sociale rappresenta senza dubbio un grande punto di forza della politica europea perché le organizzazioni che vi appartengono sono riconosciute per le loro caratteristiche specifiche e distintive, anziché essere forzate ad adeguarsi al profilo delle imprese ordinarie o ad assumerne a riferimento i modelli operativi e organizzativi.
La scelta di una definizione non è il solo elemento che qualifica il Piano, esso infatti non è un semplice atto di indirizzo politico, ma comprende più di 60 azioni, individuate attraverso un ampio confronto tra le diverse strutture della Commissione e un nutrito gruppo di stakeholder ed esperti.
Tuttavia, è opinione di chi scrive che il preciso perimetro definitorio adottato al livello europeo può rappresentare però anche un rischio nel momento in cui si vogliano costruire politiche di sviluppo territoriali ispirate all’economia sociale. In questo secondo caso infatti limitarsi ad individuare come economia sociale solo e rigorosamente le organizzazioni che ne fanno parte, oppure uno specifico settore, può fortemente depotenziare il portato trasformativo della visione stessa.
Battistoni e Cattapan sono espliciti a riguardo quando sottolineano che l’economia sociale ha ancora bisogno di essere definita, prima che programmata. Il rischio, altrimenti, è quello di sviluppare piani di settore poco efficaci nonché poco utili agli stessi attori che vi operano. Questo diventa particolarmente importante quando, come sta avvenendo attualmente, ci si sta avviando verso la costruzione di politiche locali dedicate. La Città metropolitana di Bologna sta per approvare il primo Piano di economia sociale locale in Italia, sullo stesso percorso si sono avviate Torino e Reggio Emilia. Un’attenzione particolare è anche nelle intenzioni della neoeletta giunta regionale dell’Emilia Romagna, che ha per la prima volta assegnato una delega specifica.
L’economia sociale non è semplicemente il Terzo settore, ovvero quell’attore collettivo che risponde ai “bisogni sociali” rimasti indietro, che non trovano risposta né dallo Stato né dal mercato, il “cerotto” del capitalismo. Si tratterebbe di una interpretazione non sono disallineata rispetto al Piano europeo ma troppo restrittiva e sminuente alla luce della grande capacità generativa dell’economia sociale, che per svilupparsi appieno deve vedere peraltro una collaborazione sistemica sempre più efficace sia con la pubblica amministrazione e che con le imprese profit. Si incorre nello stesso rischio individuando con economia sociale solo determinate attività o ambiti, come ad esempio la cura.
L’economia sociale infatti può essere la strada concreta per trasformare il modello di sviluppo, riformando il capitalismo neoliberista e tornando ad avere un’economia al servizio delle persone, e non viceversa. Questa profonda trasformazione può avvenire però solo se essa viene concepita come nuova visione, vale a dire l’obiettivo politico a cui tendere per una piena giustizia sociale ed ambientale, a cui tutti i soggetti economici devono convergere. Da questa visione, in coerenza con essa, deve discendere un nuovo sistema istituzionale, ovvero l’insieme delle politiche, delle pratiche, della cultura e dei soggetti, necessari per tracciare scopi da perseguire come finalità per il sistema economico, modificandolo alla luce dell’interesse generale e pubblico.