La comunità internazionale affronta da tempo la questione climatica con una serie di accordi. Quelli principali, che segnano il percorso della tentata riduzione dell’accrescimento della temperatura, sono i seguenti: la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (1992); il Protocollo di Kyoto (1997); il cosiddetto “Emission Trading” (scambio di emissioni) dell’Unione Europea (2003); l’Accordo di Parigi sul Clima (2015). Intenzione delle Parti di questi accordi (196 paesi) sarebbe di contenere entro il grado e mezzo l’innalzamento della temperatura media del pianeta entro un certo numero di anni (2030 – 2050), al fine di raggiungere entro quel periodo la neutralità climatica, ovvero l’arresto del suo progressivo innalzamento. Purtroppo, i risultati finora ottenuti dalle varie CoP (“Conferences of Parties”) che si succedono di anno in anno, non sembrano essere stati brillanti.

Secondo uno studio scientifico del National Center for Climate Restoration australiano, guidato da David Spratt e Ian Dunlop (“Existential climate-related security risk” (https://www.preventionweb.net/publication/existential-climate-related-security-risk-scenario-approach), i policy-maker mondiali hanno drasticamente sottovalutato i rischi del cambiamento climatico, perdendo l’ultima occasione per dar luogo a un’economia a zero emissioni e mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei due gradi. L’ultima occasione è stata quindi clamorosamente bruciata. Se domani fermassimo tutte le emissioni di gas serra, è una delle conclusioni del citato studio, il problema sarebbe risolto? No, perché Il clima ha un grado di inerzia molto alto, cioè un ritardo significativo tra le cause innescanti e le conseguenze osservate del cambiamento climatico. La CO2, una volta entrata nell’atmosfera, vi rimane per circa cento anni, continuando a produrre effetto serra per un secolo, anche in assenza di ulteriori emissioni climalteranti. Gli oceani continuerebbero quindi a riscaldarsi a lungo anche dopo la riduzione dei gas serra e, soprattutto, impiegherebbero molto tempo a raffreddarsi. L’intervallo di tempo tra le cause (le emissioni di gas serra) e le conseguenze (innalzamento della temperatura) può quindi essere contato in decenni. In termini concreti, questo significa che anche se interrompessimo domani tutte le emissioni, la Terra continuerebbe a riscaldarsi a un ritmo elevato per i prossimi venti anni o più.

“Se” interrompessimo le emissioni. Ma non le stiamo per nulla interrompendo, visto anche che lo sviluppo delle energie rinnovabili non sta affatto sostituendo le fonti fossili, le quali continuano a crescere.

Il risultato individuato dallo studio australiano è che nel 2030 le emissioni di anidride carbonica raggiungeranno livelli mai visti negli ultimi due milioni di anni. Tentativi di porre rimedio nel ventennio successivo sarebbero tardivi: nel 2050 il riscaldamento globale raggiungerebbe un aumento di tre gradi rispetto all’era preindustriale, di cui 2,4 legati alle emissioni e 0,6 al cosiddetto “carbon feedback”, la reazione negativa del pianeta al riscaldamento globale. Tale fenomeno presenterebbe rischi di riscaldamento globale aggiuntivo non calcolati dagli Accordi di Parigi e in grado di porre rischi esistenziali alla civiltà umana. Le ipotesi di riscaldamento climatico delineate nel 2015 dagli Accordi di Parigi, pari a un aumento di tre gradi entro il 2100, non tengono infatti conto del meccanismo di “long term carbon feedback” (per esempio, la minore riflettenza di calore degli spazi artici e antartici, ridotti di dimensione a causa dello scioglimento dei ghiacci) con cui il pianeta tende ad amplificare i mutamenti climatici in senso negativo, quindi portando a un ulteriore aumento della temperatura.  L’anno 2050 rappresenterebbe quindi l’inizio della fine. Buona parte degli ecosistemi terrestri collasserebbero, dall’Artico all’Amazzonia alle barriere coralline. Il 35% della superficie terrestre, dove vive il 55% della popolazione mondiale, verrebbe investita per almeno venti giorni all’anno da ondate di calore letali. Il 30% della superficie terrestre diventerebbe arida: Mediterraneo, Asia occidentale, Medio Oriente, Australia interna e sud-ovest degli Stati Uniti risulterebbero inabitabili. Una crisi idrica colossale investirebbe circa due miliardi di persone, mentre l’agricoltura globale imploderebbe, con raccolti crollati del 20% e prezzi alle stelle, portando ad almeno un miliardo di persone i flussi di profughi climatici. Guerre e carestie comporterebbero la probabile fine della civiltà umana così come la intendiamo oggi. Se si tiene conto anche del “carbon feedback”, infatti, esiste un concreto rischio di arrivare a tre gradi di riscaldamento già nel 2050, che salirebbero a cinque gradi entro il 2100. La civiltà umana non farebbe in tempo a vederli, poiché la maggior parte degli scienziati ritiene che un aumento di quattro gradi distruggerebbe l’ecosistema mondiale portando alla fine della civiltà come la conosciamo oggi. La specie umana in qualche modo sopravviverebbe, ma avremmo distrutto tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni.

Il vero problema, sottolinea lo studio australiano, è rappresentato da alcune soglie climatiche  di non ritorno, come la distruzione delle calotte polari e il conseguente innalzamento del livello del mare. Soglie limite molto pericolose, che una volta oltrepassate trasformerebbero il cambiamento climatico in un fenomeno non lineare, difficilmente prevedibile con gli strumenti oggi a disposizione della scienza, e molto probabilmente non controllabile. Dopo il superamento di quei punti di non ritorno il riscaldamento globale si autoalimenterebbe anche senza l’azione dell’uomo, rendendo inutile ogni pur tardivo tentativo di eliminare le emissioni. La fine della civiltà umana rappresenta un rischio minimo ma non assente, stimato al 5%. È oggi, quindi, che dobbiamo agire, conclude lo studio: domani potrebbe essere troppo tardi.

Agire. Ma come?

Le riunioni delle Parti che fanno seguito all’Accordo di Parigi del 2015 più che alla sostanza delle decisioni, badano alla cura posta nelle espressioni, alle acrobazie sintattiche e verbali intese a non troppo costringere o turbare questo o quello. È stato così anche in occasione del vertice CoP 28 di Dubai, che, nel perseguire e raggiungere il maggior compromesso possibile fra tutti gli attori, si è limitato a indicazioni di massima del tutto ininfluenti sul problema. Nessun fermo alle prospezioni petrolifere, nessuno stop ai finanziamenti al settore degli idrocarburi, insufficiente sostegno economico ai paesi in via di sviluppo sulla via della transizione energetica. Supponiamo comunque, nonostante questo, che l’auspicata neutralità carbonica venga effettivamente raggiunta nel 2050, diversamente da quanto prevede lo studio australiano; questo metterà in equilibrio il clima? Energia rinnovabile e nucleare saranno sufficienti in tempo utile a compensare le fonti fossili? Oppure il danno che è stato già creato continuerà a perpetuarsi, non solo per abbrivio, ma anche perché ha altri ventisei anni per espandersi sostanzialmente indisturbato? E se anche raggiungessimo nel 2050 una sorta di equilibrio carbonico, quanto reggerà questo alla pressione di una popolazione mondiale in costante aumento, allo sviluppo economico di continenti interi ancora indietro rispetto all’Occidente, a una domanda di energia che si prevede doppia di quella attuale, alla filosofia della crescita economica perpetua? Ben vengano – beninteso, quando verranno e quando saranno concreti – gli accordi mitigativi della complessa situazione climatica del pianeta e le invenzioni immaginate sulla base delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. Tuttavia, è ora di porsi finalmente le domande cruciali che non abbiamo ancora avuto il coraggio di formulare.

La prima domanda è questa: dovremo continuare a generare l’energia necessaria a una produzione in costante crescita, oppure dovremmo limitare la produzione al livello consentito dall’energia disponibile a condizioni non climalteranti? Sempre che non si raggiunga un improbabile e immodificabile equilibrio climatico, si tratta di una domanda comunque pregna di angoscia, come il famoso monologo di Amleto, perché in un caso ci si avvia verso lo sconvolgimento incontrollabile e forse distruttivo del clima, nell’altro, ove non consapevolmente ed efficacemente governato, si andrebbe verso sconvolgimenti socioeconomici non scevri di pesantissime conseguenze. Eppure, è un dilemma che bisognerà risolvere.

Dall’insorgere dell’era industriale abbiamo prodotto sempre di più in quantità e pluralità di beni. In una prima fase, la produzione industriale ha migliorato la qualità della vita, almeno nel mondo industrializzato; in una seconda fase l’ha stabilizzata; nell’attuale fase, siamo inondati da beni di consumo che non solo non apportano valore aggiunto, se non futile e marginale, alla qualità della vita, ma talvolta la stravolgono, accompagnandoci per mano verso artificiosi bisogni che non abbiamo e verso mondi più o meno virtuali o effimeri di cui non vi sarebbe nessuna necessità. Da questo sorgono le successive domande. Abbiamo bisogno davvero, sempre in riferimento al mondo industrializzato, di possedere tre autovetture per famiglia, di avere ogni anno un nuovo cellulare sempre più performante, più pieghevole, più “smart”, di stare sul web e sui social ventiquattrore al giorno tutti i giorni dell’anno? Abbiamo davvero bisogno di viaggiare in massa per l’universo mondo nel modo compulsivo che vediamo? Abbiamo bisogno di mangiare carne con frequenza trisettimanale o più alta? No, perché i veri bisogni umani soggiacenti alle cose indicate sarebbero soddisfatti da trasporti pubblici efficienti, sostenibili e articolati; da computer e cellulari solidi, riparabili e concepiti senza obsolescenza programmata, tali da durare tutta la vita; da comunicazioni web e social limitati con qualche criterio; dall’abbandono del turismo di massa per un turismo meno intenso ma di maggior qualità e sostenibilità; da un’alimentazione varia ed equilibrata, tale da non dover produrre gli alimenti di natura animale o vegetale in modo intensivo e insostenibile.

Naturalmente anche quanto appena detto, a paradigmi socioeconomici e industriali immutati, sarebbe tragico: si arresterebbe il progresso tecnologico, si innescherebbero drammatici sconvolgimenti economici e sociali, intere categorie professionali perderebbero il lavoro, e così via. Eppure, sono proprio questi i problemi che dovremmo porci nelle prospettive future, e dovremmo cominciare a ragionarci sin da ora, senza aspettare il 2050. Si tratterebbe di rivoluzionare il paradigma economico industriale, non in direzione di una “decrescita felice”, che sostanzialmente non vuol dire nulla, ma verso una stabilizzazione e crescita della qualità del vivere a partire dalle vere necessità dei popoli e verso la valorizzazione di aspetti della vita altri che non il consumo compulsivo di cose e servizi inutili. La grande capacità progettuale e industriale umana dovrebbe dirigersi elettivamente verso produzioni sostenibili e durevoli basate sull’energia disponibile (e non è detto che l’ingegno umano non trovi il modo di migliorare i prodotti senza accrescere la domanda di energia); verso servizi alle persone, certo più importanti del cambio annuale del cellulare, come la sanità, la cultura, la scuola; verso la ricerca scientifica, tecnica e umanistica; verso un turismo che valorizzi i luoghi vicini, piuttosto che mete lontane raggiungibili solo da aerei e navi a prezzo di gravissime emissioni; verso una nutrizione che si benefici dei prodotti del territorio, piuttosto che avvalersi di alimenti che girano il mondo e lo inquinano prima di arrivare alle nostre tavole.

Abbiamo bisogno di una nuova e diversa economia che metta sostenibilità climatica ed equità sociale e internazionale al posto del PIL, del profitto illimitato, del debito, della speculazione finanziaria; parametri non più sostenibili, né accettabili, se vogliamo un mondo su cui non gravi la cappa della morte climatica, né quella dell’ingiusta e iniqua sperequazione di condizioni economiche e sociali. E dobbiamo chiederci se tale obiettivo dovrà essere affidato al dominio assoluto di un mercato cieco e senza regole, oppure alla gestione pubblica e internazionalmente concordata dei delicatissimi passaggi che inevitabilmente ne nasceranno. Ricordando che l’economia non è una forza della natura, ma un’invenzione del pensiero umano, che, in quanto tale, è suscettibile di tutti gli adattamenti che saranno necessari. E ricordando che ogni serio avanzamento nel senso auspicato abbisogna di un mondo cooperativo e pacificato, per poter ben operare senza la tragedia delle ricorrenti guerre, che tra l’altro producono anch’esse imponenti emissioni venefiche e climalteranti.

In conclusione: prima che un mondo cambiato ci distrugga, dovremmo noi cambiare il mondo affinché la civiltà e la specie umana non soccombano.

In copertina: © Fabrizio Uliana 2023

L'autore

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Mario Boffo

Mario Boffo, ex diplomatico (già ambasciatore in Arabia Saudita), romanziere, Presidente del Premio EPhESO per i rapporti euro-mediterranei. Vive a Roma.