Ho scoperto che la dimenticanza del proprio appartenere è comune alla maggior parte di coloro che provengono da piccoli centri. La fatica a riconoscersi in un’identità, dal punto di vista sociale e antropologico, è diffusa tra tutti quelli che più abitano i propri luoghi passivamente e che spesso fanno fatica a rispondere consapevolmente alla domanda “e tu da dove vieni?”.

Per parlare di identità, si dovrebbe iniziare a dare un nome giusto alle cose. Per scongiurare l’abbandono delle terre, si potrebbe parlare di consapevolezza. Per tale motivo, al fine di denunciare in primo luogo l’assenza di un riconoscimento terminologico ufficiale relativo ad ognuna delle categorie del tessuto su cui camminiamo – quelle appartenenti settore archeologico – si è partiti dai nomi che vengono associati a molte di quelle terre italiane più distanti dai grandi centri cittadini e dalle fondamenta che ne compongono le relative strade e le mura.

 

L’accezione di sito o area archeologica ‘minore’ è una definizione formale utilizzata per distinguere quella categoria di siti extra-urbani di epoche e tipologie disparate che in Italia ingloba la stragrande maggioranza degli insediamenti archeologici. Il termine ‘minore’ non costituisce, infatti, un mezzo di comparazione qualitativo o quantitativo, ma una classificazione meramente semplificatoria che evidenzia il divario tra i luoghi di forte attrazione turistica (che in Italia non superano una classifica decimale) e le località di altrettanto prestigio ma totalmente sconosciute alla popolazione locale e occasionale. La caratteristica principale propria di questa tipologia di siti, ovvero l’insorgere al di fuori di grandi metropoli, li esclude dalle politiche di valorizzazione e conservazione e li rende inevitabilmente soggetti all’azione di deterioramento del tempo, schedandoli ‘solamente’ come tasselli essenziali per la ricomposizione dell’identità e storia locali del territorio di appartenenza. Nel nostro panorama territoriale, numerosi sono i siti di interesse archeologico che si classificano come ‘minori’. Alcuni più noti e oggetto di studi più approfonditi, altri individuati superficialmente, altri ancora in stato di abbandono. Spesso data la mancanza di indicazioni e impianti di sicurezza che costituirebbero la base per l’individuazione di tali zone, è possibile trovare in ogni regione del Paese resti di strutture antiche o ruderi nelle zone periferiche. Luoghi che, forse per effetto di tali condizioni di abbandono, respirano spesso all’interno di vaste e incontaminate zone verdi del Paese, dove la Natura è parte della quotidianità di chi li abita.

Fondamentale quindi sarebbe riflettere sulla necessità di avviare un profondo processo di sensibilizzazione che instradi una nuova coscienza culturale e scongiuri l’abbandono di questi luoghi. Importante sarebbe divenire consapevoli del proprio essere regionale attraverso il riconoscimento delle simbologie espresse dal patrimonio culturale, al fine di ri-elaborare nuove forme di appartenenza radicate nella sfera locale. L’archeologia non è che il componente fondamentale del territorio, fulcro della pianificazione e gestione di quest’ultimo, in quanto specchio della storia e dell’identità della popolazione a cui appartiene.

Questo tono di denuncia si matura dal fatto che la conservazione dell’eredità di cui disponiamo, tangibile e intangibile, è necessaria non solo da parte degli enti di tutela preposti, ma anzitutto dalla popolazione locale, perché non rischi di dissolversi nella disinformazione che colpisce gran parte di questi territori ‘senza tempo’. Il recupero di ogni singola testimonianza relativa al processo di formazione di un territorio si traduce nell’individuare una chiave di lettura delle molteplici simbologie e forme di appartenenza che lo spazio culturale produce, dove l’archeologia è protagonista di tale processo interpretativo come trait d’union tra un passato remoto polveroso e la realtà odierna.

 

I processi legati alle trasformazioni socioeconomiche degli ultimi decenni hanno segnato fatalmente il destino dei luoghi marginali alle moderne industrie produttive, innescando il processo di spopolamento di quei luoghi ad oggi sospesi in uno spazio senza tempo. La perdita delle realtà antiche ‘minori’ è figlia di una concezione adulterata del nuovo mondo, pervaso dall’ ingordigia di gettare colate inespressive di disattenzione sulla varietà storico artistica che in Italia pullula di scoperte quotidiane. Svariate sarebbero le cause riconducibili all’iniziazione dei processi di spopolamento nel corso dei decenni, come la perdita di funzionalità dei servizi, l’isolamento geografico, la distanza dai maggiori centri produttivi, i dissesti geologici e l’alto rischio sismico della regione o, ancora, le barriere fisico cognitive che interessano aree e siti di interesse storico archeologico, tanto quanto i borghi incustoditi. Ma deve essere innanzitutto la presa di coscienza delle difficoltà di sopravvivenza di questi a condurre un cambio di rotta e lasciar sperare in un graduale rinvenimento. Il primo passo per vincere la desertificazione urbana è concedere ad ogni luogo la riconoscenza e la risonanza che meriterebbero: dare loro i propri nomi, camminarci dentro, curiosare tra gli abitanti e le pietre forgiati dagli stessi mutamenti.

Il retaggio dei territori più ‘marginali’ vive nell’autenticità delle tracce del passato che vestono i ruderi che ancora oggi, a stento, respirano e che un tempo furono crocevia di afflussi, incontri e scambi con grandi popoli. Dirigersi verso un ripopolamento, seppur ridotto, data l’inadattabilità dello stile di vita moderno, e verso la semplice conoscenza di ciò che ha plasmato la nostra realtà, è senz’altro la principale arma per abbattere la passività che pervade lo stile di vita in primis delle popolazioni locali. Indubbiamente la ricettività risonante del patrimonio archeologico locale deve armonizzarsi con la pianificazione strategica del territorio e la sostenibilità finanziaria. Creare un programma di interventi di tutela e valorizzazione mirati, ad esempio, permetterebbe di individuare le problematiche che differiscono per ogni tipologia di area o dimensione intellettuale e di tener conto della disuguaglianza fondamentale tra aree semi abbandonate e/o extraurbani e quelle prossime a più ampi centri a continuità di vita.

 

La sensibilizzazione è un processo macchinoso, conducibile esclusivamente da coloro che nutrono profonda consapevolezza del proprio essere parte di un territorio e sanno abitarlo attivamente. Sono fiduciosa nel raccontare quelli che chiamo ‘i luoghi della memoria’, giacenze di modelli culturali antichi incontaminati, come a risollevare una coscienza culturale che si indigni dinanzi le mura abbandonate e le inagibilità, dove la disinformazione ha ormai infettato ogni singola pietra. Da questo punto di partenza, credo in una nuova economia dei territori e in un nuovo attivismo politico che guarisca le lacune finanziarie e il disinteresse radicato nelle istituzioni predominanti. Credo, infine, anche che un’azione giovanile consapevole possa rivoluzionare la realtà e donare una nuova opportunità ai territori sconosciuti ai più, concedendo i giusti nomi alle cose.

L'autore

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Sara Casale

Nata a Tagliacozzo (AQ) nel 1999, ha vissuto a Venezia e a Bologna per conseguire la Laurea in Economia e gestione dei Beni Culturali e successivamente la specialistica in Direzione aziendale. Attraverso i suoi studi ha unito la ricerca umanistica e la passione per le arti con lo spirito politico e gestionale del mondo culturale - e non - a 360°. È flautista, appassionata di Opera e Arte. Le sue ricerche di tesi hanno coinvolto strategie di valorizzazione dei territori archeologici in stato di abbandono e le politiche di recupero dei beni culturali nell'eventualità di conflitti armati internazionali. Si interessa di fundraising e, con la finalità di approfondire tale materia, attualmente lavora come progettista nel campo della finanza agevolata.