Un convento particolare

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Riassunto delle puntate precedenti. Kirmiz il rosso, l’antico pescatore Domenico, catturato dai turchi, rinnegato e convertito all’islam, partecipa a un’incursione a Napoli insieme al pirata e ammiraglio ottomano Uluğ Alì, con il segreto intento di cercare Caterina, l’ancella della Marchesa del Vasto di cui era innamorato. Ma la Marchesa e l’ancella erano assenti e, dopo un drammatico incontro con il fratello Nicola, Kirmiz deve tornare frustrato a Istanbul. Caterina resta colpita dall’episodio, che le viene riferito al rientro. Quando la Marchesa del Vasto si rende conto che sta per morire, fa sì che l’orfana Caterina abbracci la vita religiosa al fine di trovare casa e protezione. La madre e il fratello di Domenico, intanto, fantasticano l’una di espiare i peccati del figlio attraverso la propria confessione, l’altro di un recupero di Domenico alla propria terra e alla Vera Fede. Caterina entra infine nel Convento di Sant’Arcangelo in Baiano, nel quartiere di Forcella. La notte della sua professione di fede, la Madre Maestra, Suor Apollonia, bussa alla porta della cella. Intanto…

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Nell’elegante sala di ricevimento della sede arcivescovile di Napoli, Don Ignacio Gomez Acebo y Castillo, principale consigliere del Viceré, sedeva di fronte al Cardinale Arcivescovo di Napoli. Tra i due erano già intercorse le cerimoniose cortesie di rito particolarmente care all’aristocrazia spagnola e alla Chiesa, accompagnate da un assaggio di eccellente malvasia e dalla degustazione di squisiti piccoli dolci di pasta reale. Esauriti i convenevoli, i due interlocutori stettero un momento in silenzio guardandosi negli occhi senza sfidarsi e senza intimorirsi, accennando a dire ma subito frenando la parola, esortandosi vicendevolmente a cominciare e schernendosi l’un l’altro dal dare inizio al colloquio. Entrambi sapevano di che cosa si sarebbe parlato; ma ciascuno aspettava che fosse l’altro a principiare, a fare la prima mossa. Infine, fu lo spagnolo a esordire.

“Eminenza Illustrissima”, disse, “sebbene la corte del Viceré e le autorità civili, rispettosissime del dominio di Santa Madre Chiesa, non intendano minimamente interferire in questioni che in tale dominio ricadano… purtuttavia esse sono gravemente preoccupate di certe dicerie, di certe vociferazioni che pur sommessamente corrono fra la gente e sulle labbra della popolazione a proposito di inconsueti accadimenti che avverrebbero fra le mura di un convento… pare che in tal convento le comuni pratiche delle religiose non si limitino alla preghiera, ai lavori, all’osservanza della regola, ma vadano, per così dire… oltre”.

“Eccellenza”, lo interruppe con melliflua complicità il Cardinale, “siamo anche noi informati di tali dicerie, e da tempo il Convento di Sant’Arcangelo è sottoposto alle nostre attenzioni. Tuttavia, l’operato della Chiesa deve essere prudente. Non solo perché potrebbe trattarsi di semplici pettegolezzi privi di fondamento, di fantasie della gente, di ipotesi dovute all’ignoranza; ma anche perché per intervenire contro l’azione del Diavolo, se di questo si tratta, occorre cautela, giacché il Maligno possiede un’astuzia pari solo alla propria malvagità; e fra le sue armi vi è anche lo scandalo, lo scandalo che verrebbe suscitato da azioni troppo tempestive ed eclatanti e che sgomenterebbe il popolo della fede. Bisogna inoltre ricordare che entro quelle mura sono ospitate donne e fanciulle provenienti dalle più importanti case della nobiltà napolitana e vicereale. Interventi non corroborati da cautela e preparazione potrebbero compromettere il buon nome e la reputazione di alcune di queste famiglie”.

“È così”, rispose Don Ignacio; “Lo stesso Viceré ne è consapevole; e non è difficile comprendere quanto attenzione e cautela stiano a cuore anche a lui e alla corte, nonché allo stesso nostro sovrano Filippo, che molto ama i propri possedimenti nella bella Italia, e questa splendida città, autentica perla della sua corona. Il Viceré sommamente confida che le autorità ecclesiastiche sapranno agire quando e come prudenza e determinazione consiglieranno. Mio compito era semplicemente quello di riferire della nostra condivisa preoccupazione, perché ove ciò che si racconta fosse vero, non vi sarebbe solo grave scandalo per gli istituti religiosi, ma anche grande sconcerto fra il popolo e presso la stessa nobiltà. Questo arrecherebbe grande nocumento al buon nome del Vicereame…”

“Andate tranquillo”, concluse il Cardinale congedando il gentiluomo; “Riferite a Sua Eccellenza Illustrissima il Viceré che la faccenda è in buone mani. Mani attente e consapevoli del comune interesse a risolverla nel modo migliore, nella massima discrezione e possibilmente senza scalpore. Assicurate il Viceré della nostra devozione”.

Esaurito il colloquio, i due si salutarono con affettato reciproco riguardo, aggravati ambedue da analoghe inquietudini relative alle misteriose e torbide vicende di Sant’Arcangelo in Baiano, che erano suscettibili di conseguenze dirompenti per entrambi gli ordini: quello ecclesiastico e quello civile.

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Caterina aprì la porta della cella, e Suor Apollonia, una volta entrata, la richiuse a chiave dietro di sé. Quell’inattesa visita aveva incuriosito la giovane suora; forse era prassi che la Madre Maestra rendesse visita alle sorelle nel giorno stesso della professione di fede… Apollonia sbirciò dallo spioncino che dava sul corridoio; poi si sedette sulla branda della novella Suor Ioanna, e la invitò a sedersi accanto a lei.

“Sorella Ioanna”, disse dopo un intenso silenzio, “questo è il giorno della tua professione definitiva; un giorno nel quale l’amore che unisce noi sorelle a Dio e che Dio nutre per noi raggiunge la massima perfezione. Perfezione che tuttavia deve essere alimentata con pensieri e atti, nel segno dell’unicità del creato che lega l’uomo a Dio. In quest’amore e in questa perfezione dobbiamo tutte ritrovarci; nell’amore che professiamo l’una verso le altre si manifesta e opera l’Amore Celeste”.

“Sì”, rispose Caterina; “È l’amore per Dio che ci ha portato qui, e quest’amore ci accomuna nella devozione verso il Signore. Ho ben ascoltato le parole della Madre Badessa quando ha parlato a noi professe”.

“Eppure”, riprese Apollonia, “quest’amore non sarebbe manifestazione dello Spirito Santo se fosse solo detto, solo proclamato… Dio vuole che l’amore sia agito”.

“Agito, certo”, commentò Caterina senza ben comprendere che cosa intendesse la Madre Maestra, ma purtuttavia assecondandone le affermazioni; “Dobbiamo parlarci con affetto, aiutarci nei lavori, condividere la preghiera…”

“Non basta”, disse Apollonia prendendole delicatamente la mano; “Il Signore vuole che il nostro amore sia dimostrato con tutte le facoltà che Egli ci ha dato, le cui espressioni non sono altro che altrettanti salmi che eleviamo verso di Lui”.

Da qualche cella vicina si levò un lamento dolce e poi concitato, che proruppe in intensi sospiri; sospiri poco meno che urlati. Caterina si ricordò delle innumerevoli occasioni in cui aveva già udito lamenti e spasimi, rumore di passi e di porte aperte e chiuse, voci concitate e subito represse, cauto rigirar di chiavi nelle serrature; suoni e rumori che aveva attribuito a un monaciello certo presente fra quelle antiche mura. Apollonia trasalì leggermente all’udire i sospiri, ma si riprese subito.

“Hai sentito?”, chiese sorridendo a Caterina; “Una nostra consorella ha appena sperimentato un’estasi mistica. Sì, un’estasi come quelle dei santi, come quelle che veramente avvicinano a Dio, come quelle di Madre Teresa d’Avila. Non vorresti provare anche tu, adesso che sei professa, una simile esperienza? Non ti senti già pronta per questo passo ulteriore verso Dio?”

“Oh, sì”, rispose Caterina; “Per questo pregherò ancora più intensamente, e ancora più frequentemente rivolgerò il pensiero a Nostro Signore e raddoppierò le letture della bibbia e dei testi sacri”.

“Sì”, annuì la Madre Maestra, “la Bibbia… Proprio per questo ti ho portato un brano da leggere congiuntamente…” Nel dir questo, si frugò le ampie tasche della tonaca e ne trasse dei fogli.

“Ecco”, disse; “È un brano del Cantico dei Cantici. Leggiamolo insieme…”

Le due suore presero a leggere all’unisono, con toni tenui ma partecipi.

“Una voce! Il mio diletto! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline.  Somiglia il mio diletto a un capriolo o a un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate. Ora parla il mio diletto e mi dice: Alzati, amica mia, mia tutta bella, e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro. Il mio diletto è per me e io per lui. Egli mi dice: mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la gelosia; le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo. Parola di Dio”.

Concentrata sulla lettura e sulle indecifrabili emozioni che le provocava, Caterina non si era accorta che Apollonia le aveva sbottonato i polsini della camicia da notte. Avvertì tuttavia il tocco delle dita sotto la manica, all’interno dei polsi.

“Per l’estasi mistica cui tutte dobbiamo tendere”, disse la Madre Maestra, “non bastano preghiere e pensieri rivolti al Signore. Questo va bene per le novizie e le converse. Dopo la professione definitiva bisogna liberarsi di ogni ostacolo che impedisce ai sensi di librarsi verso il cielo. Come nel cantico che abbiamo letto, dobbiamo essere tutte l’una all’altra diletta, l’una all’altra colomba, l’una all’altra vampa di fuoco…”

Nel dir questo, aveva sbottonato la cuffia di Caterina e le aveva liberato il capo. La giovane professa si sentì subito più leggera, meno costretta, e aveva provato qualche brivido quando i polpastrelli della consorella avevano indugiato fra cuffia e gote, fra gorgiera e collo, quando le aveva passato le dita nella corta chioma, quando le aveva accomodato i residui boccoli dietro le orecchie, sfiorandogliele con apparente noncuranza. Poi Apollonia continuò:

“Non senti come priva della cuffia la tua mente respira meglio, e vibra, e si eleva? Non senti anche tu vampe di fuoco percorrere le tue membra, e come queste vampe siano esse stesse un cantico?”

“Sì”, rispose Caterina incerta; ma sotto la suggestione della lettura e delle parole della Madre Maestra, senza la cuffia che anche di notte le religiose dovevano portare, sentì un fremito di materiale libertà, mentre anche Apollonia si liberava di velo e cuffia, scoprendo capelli ancora corvini nonostante i suoi quarant’anni. E le vampe di fuoco… erano mistiche vampe quelle che avvertiva sotto le dita della consorella, che le avevano intanto sbottonano la camicia da notte e le disegnavano dolci ghirigori sulla pelle?

“Gli scuri abiti che portiamo indosso, e che dobbiamo vestire durante il giorno per modestia e per umiltà”, continuò Apollonia facendosi più vicina alla giovane suora e accarezzandole il seno, “sono ciò che ci divide dal mondo; dal mondo e dal cielo. E l’anima che vuole elevarsi non può farlo, perché oppressa dai grevi tessuti. Nulla, invece, deve separarci dal firmamento”.

Caterina ascoltava e si lasciava fare. Da buona professa, voleva anche lei condividere le estasi di cui aveva avuto prova e spiegazione. Inoltre, sentiva scorrere il sangue più velocemente, mentre la consorella la liberava del tutto dagli indumenti, denudandosi essa stessa.

“Adesso”, disse, “affidati alla tua Madre Maestra, che ti condurrà all’estasi e alla via della perfezione…”

Caterina non era sicura di quello che stava facendo. Si sentiva impacciata, ma al contempo provava emozioni cui non avrebbe saputo dare un nome. E sentiva che doveva fidarsi di Apollonia, la guida che tanto amorevolmente l’aveva seguita negli anni del noviziato e della conversione. Tra timore, imbarazzo e fiducia, lasciava che le mani di Apollonia le percorressero le membra, e che i suoi baci umidi si posassero anche dove lei non avrebbe mai potuto immaginare. Le crescevano in cuore e sulla pelle vibrazioni mai prima provate. Pensava a Dio, provava piacere, e piano piano, condotta dalla consorella, cominciò a darne anche lei stessa ad Apollonia. Sentiva il respiro di entrambe fondersi in un unico afflato, l’epidermide di entrambe fremere all’unisono… Era quella l’estasi? Era quello il cammino vero la perfezione? Dio era lì?

Turbinio di pensieri, di passione, di desiderio; ansia di uscire da sé; voglia di cogliere Dio tra le braccia della consorella, tra i baci dati e ricevuti, tra le carezze e i tocchi…

Di nuovo un lamento dolce, poi concitato, che proruppe in un sospiro intenso e liberatorio.

Questo, però, non era provenuto da altre celle.

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Nella prossima puntata. Dopo la scorreria a Napoli Kirmiz il rinneggato, l’antico pescatore Domenico, ha conquistato la piena fiducia di Uluğ Alì, e la fortuna continua ad arridergli, almeno sul piano della carriera. Si copre di gloria portando a compimento una missione militare molto particolare, che tuttavia non ha successo. Ma intanto, continua a sognare gli occhi celesti di Caterina…

 

In copertina: foto di Anne Drerup

L'autore

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Mario Boffo

Mario Boffo, ex diplomatico (già ambasciatore in Arabia Saudita), romanziere, Presidente del Premio EPhESO per i rapporti euro-mediterranei. Vive a Roma.