Il dolore di una madre

(Il turbolento mare del sabir, III puntata)

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Riassunto delle puntate precedenti. Kirmiz il rosso, l’antico pescatore Domenico, rinnegato e convertito all’islam, partecipa a un’incursione a Chiaia, la riviera di Napoli, insieme al pirata e ammiraglio ottomano Uluğ Alì, con il segreto intento di cercare Caterina, l’ancella della Marchesa del Vasto di cui era innamorato. Ma la Marchesa e l’ancella erano assenti. Dopo un drammatico incontro con il fratello Nicola, Kirmiz deve tornare frustrato a Istanbul. Caterina resta colpita dall’episodio, quando al rientro viene a conoscere l’episodio. Presto la Marchesa del Vasto si rende conto che sta per giungere la sua ultima ora; per evitare che l’orfana Caterina resti improtetta, fa sì che abbracci la vita religiosa. Caterina entra quindi nel convento di Sant’Arcangelo in Baiano, nel quartiere di Forcella. La notte della sua professione di fede, la Madre maestra, Suor Apollonia, bussa alla porta della cella. Intanto…

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          Don Bartolomeo era un prete di lunga militanza, da dieci anni parroco di Santa Maria di Piedigrotta, la chiesa che sorge accanto alla tomba di Virgilio e all’ingresso della Crypta Neapolitana scavata dai Romani per collegare Napoli con Pozzuoli. Di fedeli ne aveva confessati a migliaia. Tuttavia, è proprio vero: Dio ti mette alla prova quando e come meno te lo aspetti. Che cosa avrebbe dovuto dire a quella donna, che cosa le avrebbe dovuto consigliare, come avrebbe potuto reindirizzarla alle mani del Signore secondo le regole e i criteri indicati da Santa Madre Chiesa? Passava ogni giorno molto tempo davanti alla sacra statua lignea della Madonna con il Bambino.

“Anche tu”, diceva tra un’Ave Maria e un Salve Regina, “anche tu sei una madre, e sei pure protettrice di queste povere famiglie di pescatori. Consigliami, indicami la via… Tu che fosti trovata ai piedi della grotta, tu che apparisti in sogno a Benedetto, a Pietro e alla giovane Maria per far costruire questo tempio di ristoro, ricovero e protezione. Tu che fosti venerata e onorata dal grande Re Federico, che ricevesti la Regina Giovanna, scalza i piedi e discinta la chioma, a impetrare pietà e protezione dalla furia del mare e della terra. Tu che due volte all’anno rischiari la grotta per quanto è lunga, a mondarla dalle nefandezze pagane che qui si compivano prima dell’avvento del Salvatore tuo figlio. Tu che benedici e a cui sempre chiediamo conforto e protezione. Tu, che ci assisti e patrocini presso Nostro Signore Iddio. Tu, Vergine Maria, tu, Santa Madre, lluminami…”

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          Come tutte le mattine, la vecchia Carmela, alle sette in punto si faceva trovare davanti al confessionale. Don Bartolomeo oramai lo sapeva, e l’aspettava già seduto all’interno.

“Sia lodato Gesù Cristo”, esordì anche quella mattina.

“Sempre sia lodato”, rispose la vecchia.

“Che cosa sei venuta a confessare?”, chiese, benché oramai conoscesse la risposta.

“I peccati di mio figlio Domenico”, rispose Carmela.

L’anziano prete trasse un sospiro di compassione e pazienza.

“Carmela mia”, disse, ripetendo la litania che oramai si riproponeva quotidianamente da mesi; “Ogni penitente deve confessare i suoi propri peccati; non si possono confessare i peccati di un altro, anche se questi sono ben conosciuti”.

“Ma io”, insistette la vecchia madre, “voglio… comme se dicecomme dicite vuie, ‘e prievite…

“Tu vuoi espiare i peccati di tuo figlio”, l’aiutò il sacerdote.

“Ecco. Proprio accussì: voglio espia’…”, dichiarò Carmela; come tutte le mattine.

“Carmela”, come tutte le mattine le disse il prete; “Io ti assolvo di tutti i peccati che una buona donna come te può aver commesso. Anche da quello di voler cambiare le regole della confessione istituita da Nostro Signore Gesù Cristo. Per tuo figlio Domenico non puoi che pregare; pregare la Madonna affinché lo ispiri a tornare alla Vera Fede, a pentirsi di tutti i blasfemi e lussuriosi peccati che avrà commesso da mussulmano, a espiare gli eccidi e le ruberie che ha compiuto da pirata. La sola via dei fedeli è la via che porta a Dio; e la Madonna, nostra avvocata e consigliera, ti indicherà questa via. Parlerà a Dio per te. E parlerà anche al cuore di tuo figlio. Prega, Carmela; prega la Madonna…”

Ascoltato il breve sermone, Carmela si accinse a recitare il rosario e altre preghiere inginocchiata a uno scanno davanti alla Vergine. Poi se ne tornò verso casa, come tutte le mattine, con il sole o con la pioggia, affrontando gli sguardi del vicolo, pregni di compassione ma anche di riprovazione per come ancora si prodigava a favore di un rinnegato. Sarebbe tornata l’indomani, come tutte le mattine, a chieder di poter espiare i peccati e le colpe del figlio.

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          Nicola, il fratello di Domenico, non si dava pace. Con devota rassegnazione, aveva dato per schiavo o per morto il fratello minore; averlo visto invece tra le file di quei truci pirati a minacciare e forse – Dio non voglia! – a uccidere tanti bravi cristiani, proprio nelle sua stessa città, lo aveva gettato in uno sconforto senza nome. Rivedeva sé stesso e Domenico bambini, a giocare a mazza e pivezo con i compagni per i vicoli di Chiaia, intenti a pescare telline sotto la sabbia della riviera, ad aiutare il padre e gli altri pescatori nel raccogliere e rammendare le reti. Ricordava quando aveva cominciato ad avviarlo ai primi rudimenti della pesca, a iniziarlo alle astuzie necessarie per acchiappare i polpi sfuggenti, le viscide seppie e i granchi mordaci; quando gli aveva insegnato a calarsi sott’acqua come Niccolò Pesce, a ridosso degli scogli, per raccogliere patelle e cozze; quando gli aveva spiegato come tendere agguati a scorfani e saraghi, come guardarsi dalle tracine e dalle murene, come distinguere il rancio fellone da quei granchi di poca sostanza e schifosa polpa che pure popolano le scogliere di Chiaia, Mergellina, Posillipo… Ricordò di come lo sfotteva bonariamente quando, giovane e gagliardo, si perdeva negli occhi celesti di una fanciulla che andava sulla riva a comprare il pesce appena catturato che ancora sembrava vivo nei mastelli e nelle ceste. Ricordava come lo avevano pianto, lui e gli altri fratelli e sorelle, il padre, che ne morì, e la vecchia madre Carmela, che ancora non si faceva capace, quando seppero che era stato catturato dai pirati di Dragut, e lo immaginavano incatenato al remo di una galea, o a lavorare schiavo al servizio di qualche turco. A saperlo salvo, ma rinnegato, il dolore del suo rapimento si era fatto ancora più acuto, perché per qualsiasi cristiano è meglio morire che fare apostasia!

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La Chiesa di San Pietro a Maiella si trovava poco più sopra di Largo Mercatiello. Un’altra Napoli. Non il sole che ti abbronza la pelle e l’anima, ma i vicoli tenebrosi; non il mare che brilla negli occhi e nel cuore, ma i cupi meandri sotterranei; non le allegre tarantelle sulla spiaggia sotto la luna, ma i riti della Quaresima, che è più nera e più brutta della morte.

Nicola non la sentiva sua, quella Napoli fosca e tetra, così diversa dalla spiagge irradiate dalla luce. Non la sentiva sua, e tuttavia sapeva che apparteneva anch’essa a quel popolo fatto di tanti popoli diversi, quelli nati sul mare e quelli nati nel profondo dei vicoli; diversi, eppure partecipi dello stesso sentimento.

A San Pietro a Maiella era da poco collocata la Confraternita di Santa Maria del Gesù della Redenzione dei Cattivi, che era stata fondata da Don Leonardo de Palma, lo stesso che aveva fondato poco prima anche il Monte di Pietà. L’Imperatore Carlo V aveva concesso alla Confraternita quattromila ducati da trarre sugli arrendamenti dei ferri di Basilicata, di Terra di Lavoro, di Principato Citra e di Principato Ultra; il Viceré  Pietro Alvarez de Toledo ne aveva approvato i capitoli e Papa Giulio III l’aveva riconosciuta. Grazie a un patrimonio costituito da elemosine, donazioni e sussidi, la Confraternita aveva come scopo fondamentale quello di riscattare gli schiavi cristiani catturati dai barbareschi in occasione delle incursioni lungo le coste del Vicereame.

Padre Vincenzo ricevette Nicola nella sala dei colloqui.

“Quello che desiderate”, gli disse con aria grave dopo averlo ascoltato, “non è possibile, figlio mio. La Confraternita, infatti, può riscattare i cristiani che siano prigionieri e schiavi contro il loro desiderio e nella fede del Cristo. Se vostro fratello di sua volontà si è fatto mussulmano, dovrà egli stesso rispondere a Dio di quest’infamia”.

“Padre”, osservò Nicola, “forse Domenico è stato costretto, forse finge di essersi convertito e fatto turco…”

“Da quanto mi avete detto”, lo interruppe il prete, “vostro fratello ha partecipato alle scorribande di Ucciallì a Chiaia. Come pensare che sia stato costretto a tanto? Come pensare che finga, se ha rubato, forse ucciso, certo commesso atti sacrileghi?”

Don Vincenzo contenne l’enfasi, che lo stava distogliendo dallo spirito caritatevole che sempre devono osservare i padri di Santa Maria della Mercede. Ristette un tempo in silenzio con la fronte appoggiata alle mani. Poi congedò Nicola:

“Pregate, figliolo”; “Pregate perché il miracolo avvenga, e vostro fratello sappia redimersi egli stesso dal peccato e dall’empietà”.

Nicola se ne andò in preda all’ira, anche se doveva riconoscere che il prete aveva ragione. Pregare, avrebbe pure pregato, come del resto sua madre. Ma, pur pregando il Signore, non era uomo da starsene con le mani in mano.

Qualcosa avrebbe tentato.

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          “Aisa, aisa!

L’urlo del capo pesca dava inizio alla lenta e faticosa operazione di trascinamento a riva delle reti pesanti di ogni sorta di pescato. Alternandosi con gli altri nell’operazione, Nicola non smetteva di pensare a suo fratello. E guardava il mare lucente nel pomeriggio inoltrato. Il mare, da cui proveniva la ricchezza della pesca più prolifica, ma anche la minaccia dei pirati barbareschi, delle tempeste che talvolta facevano affogare i pescatori già in vista della riva, con le madri, le spose, le sorelle, sulla spiaggia, a guardare le barche sbattute dalle onde e a pregare Dio, la Madonna e tutti i santi. A Chiaia tanta gente viveva del mare; e qualche volta ne moriva. Non sapeva se era lo sforzo regolare e monotono, oppure se era la vista del mare; ma sentiva che qualche pensiero gli lavorava dentro. Un pensiero come un chiodo, un chiodo che non v’era modo di estirpare. Un chiodo che aveva il nome di suo fratello e delle circostanze in cui si era messo. Solo riportando suo fratello a casa, il chiodo sarebbe stato estirpato.

Dio, che abbondanza di pesci, una volta le reti a riva e i mastelli pronti! Sarde e alose, palaje e raje petrose, sarache, dientece e achiate, scurme, tunne e alletterate! Pisce palumme e pescatrice, scuorfene, cernie e alice. Mucchie, ricciole, musdee e mazzune, stelle, aluzze e storiune. Merluzze, ruongole e murene, capitune, auglie e arenghe. Ciefere, cuocce, tracene e tenche. Treglie, tremmole, trotte e tunne, fiche, cepolle, laune e retunne. Purpe, secce e calamare, pisce spate e stelle de mare, voccadoro e cecenielle. Capochiuove e guarracine, cannolicchie, ostreche e ancine. Saure e anguille, grancetielle, marvizze, marmure e vavose. Vope, spinole, spuonole, sierpe e sarpe. Sconciglie, gammere e ragoste…

           Quanta ricchezza in quel mare, quanta ricchezza che sarebbe bastata per tutti, cristiani e saraceni. Intanto, piglia, separa le razze, prepara le ceste… In tutto questo, un’idea gli si faceva spazio nella mente, senza che ne avesse ancora coscienza.

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          Venduto il pesce più pregiato, Nicola portò come sempre nella povera casa la gustosa fravaglia e altri pesci di scarto, con i quali la madre preparava appetitose zuppe.

Mamma’…”, disse fra un boccone e l’altro; “Ce lu iamme a pigliare’!”

Carmela lo guardò con le lacrime agli occhi, non sapendo se quelle lacrime nutrivano la speranza di rivedere un figlio o il timore di perderne un altro.

“Figlio mio”, disse; “Quanne te veco ‘a te, veco ‘a Dummineco. Isse è cchiu piccerille,

ma ‘e faccia site tale e quale…

Nicola passò la notte a guardare la luna piena che disegnava una fascia argentea su un mare calmo quanto erano agitati i suoi pensieri e le mille cose che gli passavano in mente.

L’alba lo colse in un sonno stremato, in un’incoscienza risoluta.

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 Prossimamente: che avrà in testa l’ardimentoso Nicola? Che voleva Suor Apollonia alla porta di Caterina la notte della sua professione di fede? E Kirmiz, come sta vivendo i seguiti dell’incursione a Napoli e del ricordo dell’amata?

 Questi primi tre capitoli non sono stati altro che introduttivi.

 Le vere avventure dei personaggi di questa storia stanno per cominciare.

 Rocambolesche, inattese, impensabili e ricche di colpi di scena.

 Non perdete le prossime puntate!!!

In copertina: Palazzo dello Spagnolo, Napoli

L'autore

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Mario Boffo

Mario Boffo, ex diplomatico (già ambasciatore in Arabia Saudita), romanziere, Presidente del Premio EPhESO per i rapporti euro-mediterranei. Vive a Roma.