“Libero, creativo, partecipativo, solidale”. Così Papa Francesco, incontrando le Acli nel 2015 per i 70 anni del movimento dei lavoratori cristiani, tracciò l’identikit del lavoro ideale, affidando all’Associazione il compito di perseguire questi principi. Un lavoro senza oppressione e schiavismi, anzitutto: parole che suonano un po’ profetiche, nei giorni in cui facciamo i conti con l’inumana tragedia del caporalato e della schiavitù, che ha visto morire dissanguato Satnam Singh, lavoratore indiano del Punjab scaricato davanti a casa in fin di vita dal datore di lavoro, con un arto mozzato e varie fratture, pur di non portare in ospedale quel ragazzo che sfruttava, in nero, per 3 euro l’ora. Il lavoro dignitoso è quello che permette un pieno sviluppo e una piena realizzazione della persona, coerente coi suoi desideri, ambizioni, capacità, competenze. Un lavoro che tenga conto dei bisogni relazionali e che non sfrutti i poveri. Ecco, rileggendo ora queste sollecitazioni di soli 10 anni fa, sembra passato un secolo. Perché, allora, Papa Francesco ci affidò anzitutto i poveri, cioè quelli che non lavoravano.

Due anni dopo, nel 2017, venendo a Bologna e incontrando i rappresentanti del mondo del lavoro elogiò proprio quel “modello Emilia” che ci ha reso famosi in Italia, un modello virtuoso in cui istituzioni, aziende e terzo settore collaborano per la creazione di un lavoro dignitoso, supportato da servizi di welfare. Un modello incarnato dal progetto della Diocesi e Città Metropolitana “Insieme per il lavoro”, che aiuta i più fragili nell’inserimento. Ebbene, quel mondo non esiste più. Il Papa ha incontrato di nuovo le Acli a giugno 2024 e, dopo 10 anni, tutto è cambiato. Adesso abbiamo ben presente che i poveri non sono gli stessi. Allora, era povero chi non lavorava, come, in fondo, era sempre stato fino a quel momento.

Oggi, invece, anche chi lavora è povero. A volte lo è di più, perché un modesto reddito preclude alcuni benefici di welfare che ha, invece, chi non lavora. Ecco perché anche il compito di un’associazione come le Acli è cambiato e deve restare al passo coi tempi, con soluzioni nuove a problemi nuovi. Questa condizione del mondo del lavoro ha avuto ricadute molto importanti anche dal punto di vista sociale: come spiega bene il professor Stefano Zamagni, celebre economista, la paura del diverso, quella dell’immigrato che “viene a rubarci il lavoro”, è stata sostituita dalla paura del povero, l’aporofobia. In passato, nei confronti del povero, inteso in senso ampio, c’era una sorta di commiserazione. Una commiserazione che, ovviamente, non faceva giustizia ma, quanto meno, godeva di una minima considerazione. Oggi, non solo il povero non è aiutato a uscire dalla propria condizione, ma viene addirittura disprezzato: è il capro espiatorio di questa società che non solo trova una colpa nell’indigenza, ma la paura di essa causa repulsione. Le istituzioni, così come il mondo del lavoro, rischiano di farsi trascinare in questo circolo vizioso perché, se prima era possibile trovare riscatto nel lavoro, oggi non è più così. Il contorno è deficitario: la carenza e i prezzi degli alloggi a Bologna, ad esempio, impediscono spesso al lavoratore di accettare un “buon posto” in città. Al Patronato Acli ne facciamo esperienza ogni giorno: assistiamo a frequenti dimissioni volontarie da parte di lavoratori con contratti a tempo indeterminato e ottimi stipendi, ma insufficienti per l’affitto, gli spostamenti, le utenze, la spesa, i servizi di welfare famigliari come i nidi, i doposcuola e i centri estivi per i figli. Eppure, tutto questo nuoce a un intero sistema. Alla natalità, certamente, ma anche alle imprese, che faticano non poco, ormai, a trovare lavoratori. Ecco perché, nel triangolo della sussidiarietà, parola cara alle Acli e mutuata dalla Dottrina Sociale della Chiesa, le imprese non possono più restare defilate. È nel loro interesse che il welfare aziendale copra ampi aspetti della conciliazione, anzi, per meglio dire, dell’armonizzazione vita-lavoro, con ricadute su tutto il territorio in cui insistono e non più, solo, sui propri lavoratori. Serve che il lavoratore sia accompagnato per mano in un processo ben più complesso del mero incrocio domanda-offerta. Cominciano a nascere progetti che vanno in questa direzione: penso a Next, associazione creata direttamente dalle imprese, che si occupa principalmente di migranti da formare, accompagnare e, solo in seguito, inserire professionalmente. Penso a Fondazione Augurusa, che fa la stessa cosa in relazione a processi migratori interni sud-nord. Ecco, ritengo che, dopo “Insieme per il lavoro”, serva più che mai, a Bologna, un “Insieme per la casa”, perché la carenza e gli alti costi dell’alloggio sono ormai un tema così strettamente connesso con quello del lavoro, da non essere più scindibili. Così, a distanza di 10 anni, il Papa ci ha chiesto conto di questo impegno delle Acli per i poveri e, soprattutto, per i lavoratori poveri. Ce lo ha chiesto per i giovani, le donne, i migranti. Sono soprattutto queste tre categorie a farne le spese: figuriamoci chi ha tutte queste caratteristiche. Una recente indagine del nostro Caf, effettuata tra i dati aggregati, ovviamente anonimi, dei nostri contribuenti, ha evidenziato come le giovani donne siano massimamente penalizzate nel mondo del lavoro, dall’ingresso all’uscita. Il gap salariale non si colma mai, nemmeno al momento della pensione, perché i vuoti contributivi dovuti al lavoro di cura non permettono di eguagliare il reddito dei colleghi uomini.

Tuttavia, dal momento che sono arrivata a scrivere questo articolo partendo da una felice iniziativa pubblica in cui, insieme ad alcuni autori, abbiamo presentato il bel volume “Le orme di Dossetti”, curato da Giuseppe Giliberti e Davide Ferrari, non posso non ricordare che il principio di questa concezione del lavoro, che pone la persona al centro, si trova già nella Costituzione e Dossetti ne è stato uno dei padri, anche se spesso gli si attribuisce un giusto riconoscimento per il personalismo degli articoli 2 e 3, molto meno per il tema del lavoro.

Don Giovanni Nicolini, che è stato anche assistente spirituale delle Acli e che è scomparso di recente, amava ricordare quando gli capitò di accompagnare in auto Dossetti e La Pira ed ebbe così modo di ascoltare i loro ricordi dei lavori dell’Assemblea costituente. Dossetti parlò di quando, all’inizio, ci fu un momento di impasse e non riuscivano ad andare avanti, soprattutto non sapevano decidersi sull’incipit della Carta costituzionale. Allora Dossetti incontrò riservatamente Togliatti in un bar vicino a piazza del Popolo, per decidere il principio ispiratore, cioè quello che avrebbe dovuto essere l’articolo 1. I due non si conoscevano bene: fu Dossetti il primo a rompere gli indugi e a indicare il tema del lavoro. Togliatti non poteva che essere d’accordo, ma proprio per questo gli venne il sospetto che Dossetti volesse compiacerlo. “No, non mi interessa compiacerla”, rispose: “sono proprio convinto che il tema del lavoro debba rappresentare il cuore della nostra Carta e un punto di incontro fra posizioni culturali che, per altri aspetti, non sono facilmente conciliabili. La strada per arrivare al comune obiettivo è probabilmente diversa fra noi due. Per lei il tema del lavoro è importante per ragioni politiche e sociali comprensibili, per me è importante come presupposto costitutivo della centralità della persona: senza il lavoro non c’è dignità e senza dignità l’individuo non diventa persona”, gli spiegò Dossetti e, di fronte a questo, anche Togliatti lasciò cadere ogni reticenza. Ma ecco che, grazie a Giuseppe Giliberti, ho scoperto come il pensiero di Dossetti sul lavoro fosse stato in realtà anticipato nell’articolo che scrisse, con un certo entusiasmo, in occasione della vittoria laburista nelle elezioni del 1945 in Gran Bretagna. Da questa sua essenza di laburista cristiano, come il prof. Giliberti l’ha definito, si coglie meglio il senso della discussione che emerse nella prima sottocommissione costituzionale sul lavoro: “Ogni cittadino ha diritto al lavoro e il dovere di svolgere un’attività o esplicare una funzione idonea allo sviluppo economico o culturale o morale o spirituale della società umana, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta”. I testi che confluirono nella Costituzione, come sappiamo bene, vennero limati, sintetizzati, modificati, ma anche sul tema del salario possiamo trovare elementi molto attuali: “La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare le esigenze di un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia”, come si leggerà poi più avanti nell’articolo 36. “Il diritto ad avere i mezzi per un’esistenza libera e dignitosa non deriva dal semplice fatto di essere uomini, ma dall’adempimento di un lavoro”, dirà poi Dossetti nel proseguimento. E quel lavoro “inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno”, che Dossetti decanta nel celebrare la vittoria laburista, è quello che anche le Acli cercano di perseguire.

Ho voluto raccontare queste mie recenti riflessioni su Dossetti e sulla Costituzione, anche se possono sembrare lontane nel tempo, perché sono in realtà l’esempio di come possano collaborare forze politiche diverse per individuare i principi comuni e i modi per realizzarli. Questi spunti sono utili per condurre una riflessione organica sul senso più profondo del lavoro per l’uomo e per la società. Ecco perché, concludendo, vorrei individuare quelle che, per un movimento di lavoratori come le Acli, dovrebbero essere, a mio avviso, le priorità del lavoro per i prossimi anni:

  1. La dignità. Che non significa solo realizzazione personale, ma anche la possibilità di guadagnare a sufficienza per mantenere sé e la propria famiglia. Il lavoro povero è un’aberrazione da combattere in ogni modo. Non è concepibile che, oggi, con un lavoro fisso e full time non si raggiuga la sussistenza: occorre adeguare i salari all’inflazione, senza che questi aumenti gravino esclusivamente sui datori di lavoro, ma diminuendo le tasse e i costi del lavoro in Italia, che sono tra i più alti in Europa, senza che a questo conseguano adeguate misure di welfare.
  2. La questione di genere: le donne continuano ad essere penalizzate da carriere frammentate e poco remunerate. Occorre indennizzare i periodi in cui queste si assentano dal lavoro per esercitare il ruolo di cura, in modo che non ne risentano a livello retributivo e pensionistico.
  3. Il welfare. Oggi la sussidiarietà deve trovare la sua forma piena in una collaborazione pubblico-privata che includa anche le aziende e consenta al lavoratore di essere accompagnato in tutte le sue esigenze, a partire da quella di un alloggio dignitoso, problema particolarmente sentito Bologna.
  4. I giovani. Come le donne, sono molto penalizzati nelle loro esigenze, diverse da quelle della generazione precedente: questi richiedono soprattutto flessibilità, tempo per sé, per la famiglia, la possibilità di scegliere. Non c’è più l’idea del posto fisso, in cui restare per decenni, fino alla pensione. Per loro il cambiamento migliorativo, a livello di remunerazione, ma soprattutto di carriera, di tempo libero, di ruolo, non è più tabù. Non solo: scelgono il proprio posto di lavoro ponendo grande attenzione ai risvolti aziendali in termini di prestigio del marchio, di rispetto dell’ambiente, ma soprattutto di valori e di etica aziendale. Ciò che spesso manca ad essi, però, è un’adeguata formazione professionale. Escono dall’Università, o dalla scuola in generale, senza competenze realmente utili in azienda: la formazione professionale, anche in itinere, deve sempre di più adeguarsi alle nuove esigenze, perché l’istruzione scolastica ha tempi molto più lunghi per farlo.

Ecco, queste sono, a mio avviso, le priorità da perseguire con convinzione nei prossimi anni. Da parte loro, Associazioni come le Acli possono cercare di agire cambiando la cultura del lavoro, tentando di essere sentinelle di futuro; in fondo, se resistiamo, in piena salute, da ottant’anni, lo dobbiamo anche a questa capacità di precorrere i tempi. Oggi, però, tra Intelligenza Artificiale, digitalizzazione, Industria 5.0, questo è molto più complesso: non dobbiamo lasciarci spaventare da sfide che paiono al di fuori della nostra portata, specie per la rapidità inconsueta con cui si sviluppano. Dobbiamo essere in grado di dominare le novità con razionalità e, soprattutto, forti di quei valori imprescindibili che ci accompagnano dalle origini, perché la dignità del lavoratore resta al centro anche nell’innovazione più audace. Ogni nuovo strumento è al servizio dell’uomo e non viceversa: a noi spetta il compito di mettere l’etica dove il mondo mette la rincorsa allo sviluppo e al progresso ad ogni costo.

L'autore

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Chiara Pazzaglia

Giornalista, corrispondente locale per il quotidiano nazionale Avvenire, si occupa, in particolare, di economia e di interni. Collabora con diverse testate giornalistiche e riviste economiche.
Dal 2020 è Presidente provinciale delle Acli di Bologna. Ha all’attivo diverse pubblicazioni per le edizioni Franco Angeli, Bononia University Press, Erickson. È Direttore responsabile della rivista L’Apricittà e membro del Comitato scientifico dell’Istituto Veritatis Splendor.
È laureata in Filosofia all’Alma Mater Studiorum. Baccelliera presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna. Ha perfezionato gli studi frequentando diversi Master universitari, all’Università di Bologna e al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum in Roma.