1. La proposta dei referendum in materia di lavoro costituisce una sfida che mira a riportare il tema del lavoro come questione cruciale dell’assetto sociale e politico, in quanto valore  fondante della nostra stessa repubblica, secondo la solenne affermazione contenuta nell’art.1, primo comma, della Costituzione.  Il diritto al lavoro con la sua carica emancipatoria e la persona che lavora come soggetto di diritti di rango costituzionale, sul versante individuale e collettivo, ha una pregnanza tale da essere indicata come punto di riferimento per l’attuazione della “rivoluzione promessa” dall’art.3 secondo comma, che dopo  aver affermato il principio di eguaglianza formale, impone alla Repubblica di eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono alla piena partecipazione dei lavoratori, appunto, alla vita economica, sociale del paese.  Una dimensione in cui l’approccio basato sui “diritti” si coniuga con l’obbligo per le pubbliche istituzioni di promuovere la piena occupazione da intendersi secondo il filtro dei criteri adottati anche in sede internazionale come “lavoro dignitoso”, cui corrisponde la tutela della salute e sicurezza, il livello adeguato della retribuzione, la qualità del contenuto dell’attività di lavoro e la tendenziale stabilità.  Valori, tuttavia, progressivamente indeboliti dal prevalere negli ultimi 20 anni del modello socio-economico basato sulle teorie economiche neo-liberiste.  La c.d.  flexsecurity, ovvero la maggiore flessibilità del mercato del lavoro cui avrebbe dovuto corrispondere la protezione assicurata dalle istituzioni pubbliche, si è risolta nei fatti in una maggiore adattabilità alle esigenze delle imprese mentre ha comportato la riduzione sotto vari profili della tutela di chi lavora e l’accentuarsi delle diseguaglianze, se non di una vera e propria concorrenzialità al ribasso, a causa della molteplicità dei regimi giuridici applicati alla variegata tipologia dei contratti di lavoro subordinato.

Alla profonda critica di questo modello che si è dimostrato non solo iniquo, ma altresì fallace sotto il profilo dei risultati promessi di conseguire maggiore occupazione, che al contrario è diminuita e sta risalendo per merito in larga misura dei finanziamenti legati al PNRR, corrisponde appunto la proposta dei referendum abrogativi che investono alcune tra le norme più controverse. La proposta evita di incorrere nel rischio di bocciatura da parte della Corte costituzionale, come avvenuto nel 2017, restando nei limiti previsti costituzionalmente come presupposti per tale istituto che impediscono di avviare processi più vasti di riforma.

Le disposizioni legislative coinvolte sono comunque di estremo rilievo, e riguardano il licenziamento individuale, connesso anche  all’introduzione del contratto di lavoro subordinato denominato “a tutele crescenti” ; la disciplina degli appalti che ha indebolito la tutela della sicurezza dei lavoratori come risulta dalle drammatiche cifre degli infortuni mortali sul lavoro oramai praticamente giornalieri; il regime applicato al contratto di lavoro a tempo determinato allo scopo di ridurne la liberalizzazione secondo la tendenza normativa che si è progressivamente consolidata nel tempo, con effetti di precarizzazione del lavoro che hanno colpito soprattutto le donne e i giovani. Per comprendere appieno la portata dei quattro referendum sul lavoro occorre analizzare separatamente i diversi ambiti.

2. Il primo dei quesiti, che ove approvato avrebbe un notevole impatto sul quadro giuridico del lavoro, riguarda l’abrogazione di uno dei provvedimenti più significativi del c.d. Jobs-Act, ovvero il d.lgs. n. 23/2015. Come è noto, esso ha introdotto il nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato denominato a “tutele crescenti”, applicato a tutti gli assunti dopo l’entrata in vigore della legge, e nei cui confronti è prevista una disciplina specifica in caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo,  consistente solo in una indennità risarcitoria, anche se dipendenti di imprese con più di 15 addetti..  Il regime è pertanto diverso da quello applicato agli assunti prima del 2015, ovvero la c.d.   tutela “reale” del posto di lavoro – consistente nel diritto alla reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo – introdotta dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Senza poter in questa sede entrare nel dettaglio, questo tipo di tutela e la stabilità che ne deriva è di  importanza cruciale essendo il pilastro su cui poggia in larga misura l’effettività anche degli altri diritti riconosciuti ai lavoratori rendendo possibile la loro rivendicazione senza il timore di subire ritorsioni. Essa secondo il Jobs Act è applicabile solo in casi particolari come nel caso di licenziamento discriminatorio oppure che sia affetto da nullità sotto altri profili.

In tutti gli altri casi, come si è ricordato, il d.lgs. n. 23/2015 prevede per chi sia stato ingiustamente licenziato solo un’indennità risarcitoria a carico del datore di lavoro, calcolata secondo un criterio di progressività basato sulla anzianità di servizio ed entro limiti minimi e massimi prefissati. Questi ultimi sono tuttora in vigore, nonostante alcuni miglioramenti dovuti alle sentenze della Corte costituzionale che, tra l’altro, hanno ammesso una certa flessibilità in capo al giudice nel determinare il risarcimento.

L’entità rimane molto contenuta, benché la riforma del c.d. Decreto dignità abbia elevato il minimo  che ora è fra le  4 a 6 mensilità, mentre l’entità massima arriva  fino a 36 mesi di retribuzione per chi abbia una maggiore anzianità.

L’attività di “microchirurgia” non invasiva, come è stata definita[1], della Corte costituzionale ha eliminato altre contraddizioni macroscopiche della legge, permettendo di applicare in modo più rigoroso la normativa, ma certamente non ha risolto la questione del cambio di paradigma nella tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, dato che “la stabilità reale è oramai perduta”, e correttamente non spetta all’organismo giurisdizionale ma al legislatore ripristinarla.

La risposta positiva al primo referendum abrogativo da parte del “legislatore popolare” avrà come conseguenza di applicare anche nei confronti di chi sinora ne è stato escluso il regime di cui alla c.d. “Legge Fornero”. che prevede l’applicazione della tutela reale e della tutela reale “attenuata”  a seconda delle ipotesi, uniformando per tutti coloro che lavorano in imprese o unità produttive con più di 15 dipendenti la tutela in caso di licenziamento illegittimo ed eliminando le distinzioni penalizzanti a seconda della data di assunzione dei lavoratori, come invece accade tuttora.

3. Il secondo quesito in tema di licenziamento illegittimo riguarda il regime sanzionatorio applicabile nel settore delle piccole imprese, con un numero di dipendenti inferiore a 15, dove vige ancora l’art. 8 L. 604/66, che prevede esclusivamente un risarcimento monetario. Il quesito chiede di abrogare una parte della disposizione, con l’intento di eliminare il tetto massimo dell’indennità prevista e dell’eventuale maggiorazione, in modo da permettere un margine più ampio di discrezionalità al giudice che decide la controversia potendo applicare anche parametri superiori a quelli fissati per legge (10 o 14 mensilità di retribuzione per anzianità di servizio di 10 o 20 anni) in modo da assicurare il risarcimento di tutti i danni effettivamente subiti. In caso di esito positivo del referendum, si potrà dunque realizzare una entità più elevata sotto il profilo della tutela risarcitoria a chi è stato ingiustamente licenziato, pur restando in vigore il regime attuale che non prevede in questi casi la tutela reale. La proposta di raggiungere l’estensione della tutela “reale” anche nelle piccole imprese era stata avanzata  con il referendum del 2017, ma era stata bocciata dalla Corte costituzionale che l’aveva dichiarata inammissibile per contrasto con i vincoli derivanti dalla natura propria del referendum abrogativo.  In conclusione, pur non potendosi porre l’obiettivo di estendere in modo omogeneo la tutela reale ad ogni ambito lavorativo, se entrambi i referendum avessero esito positivo si farebbe un passo in avanti verso l’eliminazione di diseguaglianze con effetti positivi soprattutto tenendo conto del parallelo referendum sulla disciplina del contratto a tempo determinato.

4. Quest’ultimo è finalizzato a rendere necessaria la presenza di una causa che legittimi il ricorso al contratto a termine, in controtendenza rispetto alla progressiva liberalizzazione che lo ha caratterizzato e che, secondo le indagini empiriche, è fonte di fenomeni sempre più diffusi di “stabilizzazione della precarietà” con effetti estremamente negativi dal punto di vista sociale. Si propone quindi l’abrogazione di varie disposizioni, o parti di disposizioni normative che si sono succedute nel tempo, in modo da riportare l’introduzione del termine di durata al contratto di lavoro al modello di regolamentazione basato sulla effettiva presenza di una causa organizzativa o produttiva a carattere  temporaneo, come la sostituzione di altri lavoratori, oppure come risultante dalla tipologia predisposta dai contratti collettivi. Se il referendum avrà esito positivo sarà quindi eliminata in primo luogo la completa “a-causalità” che oggi rende possibile la libera conclusione di un contratto a termine entro i primi 12 mesi, reiterabile in caso di attribuzione di mansioni diverse; in secondo luogo verrà ridotta l’ampia disponibilità che l’attuale quadro normativo confuso e debole lascia alle parti individuali oltre che collettive nell’ individuare quali siano le esigenze tecnico – organizzative – produttive che rendono legittime le ipotesi di  stipulazione di contratti a termine.

E’ la prima volta che viene proposto un referendum abrogativo in questa materia, ma ciò si giustifica proprio in vista della connessione sistemica che la riconnette a quella del licenziamento individuale sotto il profilo dell’ esigenza di un disegno di razionalità a sostegno della promozione di rapporti di lavoro stabili, contrastando gli eccessi di flessibilità sia “in uscita” che “in entrata”. Le ultime statistiche mostrano come l’incremento della occupazione a tempo indeterminato realizzato nel periodo più recente – comunque inferiore di otto punti sotto la media europea – riguarda soprattuttogli over 50, e che sale anche il lavoro a tempo determinato addirittura in percentuale maggiore, secondo i dati elaborati dall’Istat[2].

5. La materia degli appalti è stata investita già in passato da proposte referendarie che, tuttavia, non hanno avuto esito per mancato raggiungimento del quorum. Quella attuale concerne un aspetto specifico, ma estremamente rilevante, che riguarda il tema della sicurezza dei lavoratori assunti dagli appaltatori lungo tutta la catena in cui si snoda tale forma organizzativa. Si tratta di una questione cruciale, come si è ricordato, rispetto alla quale occorre introdurre tutti gli strumenti idonei ad incrementare la tutela che appare ancora estremamente debole. In questa logica, il referendum ha l’obiettivo di eliminare un’esenzione a favore dell’imprenditore committente dell’appalto, che in caso di infortunio risponde per i danni non indennizzabili dagli istituti previdenziali “in solido” con il datore di lavoro a capo dell’impresa appaltatrice o sub-appaltatrice possa. Tale responsabilità “solidale” è tuttavai esclusa, ai sensi dell’art.26, c.4 del T.U. sulla salute e sicurezza nel lavoro, nei casi di danni riconducibili ai rischi specifici propri dell’attività dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice. Proprio questa parte della norma costituisce l’oggetto del quesito e la cui abrogazione avrebbe indubbi effetti anche sotto il profilo sistematico. Non soltanto chi abbia subito un infortunio potrebbe godere in tutti i casi del completo ristoro di tutti i danni subiti, evitando la situazione di vuoto di tutela che si crea qualora il datore di lavoro appaltatore, spesso gestore di una piccola impresa, non sia in grado di risarcire il proprio dipendente o, addirittura, si “volatilizzi” come segnalato dagli studi in merito[3]. Occorre altresì considerare che il nuovo regime, che in realtà è un ritorno al passato, avrebbe un’indubbia incidenza sulle scelte organizzative delle imprese, inducendole a scegliere solo gli appaltatori che diano garanzia di rispettare effettivamente le norme a tutela della sicurezza del lavoro. E’ noto, in senso opposto, che il ricorso agli appalti e subappalti incide spesso negativamente sulle condizioni di lavoro, determinando una particolare vulnerabilità degli addetti, testimoniata dalle cronache quotidiane, che aumenta progressivamente man mano che ci si allontana dal vertice della filiera produttiva. Recuperare in pieno l’obbligo in capo al committente dell’appalto di garantire la sicurezza dei dipendenti ed il completo risarcimento del danno in caso di infortunio è una risposta che, pur limitata, costituisce un segnale importante anche in vista di nuove possibili e più ampie riforme.

[1] Per l’analisi completa delle pronunce della Corte Costituzionale sul tema in oggetto cfr M.V. Ballestrero, E se domani…Due referendum per cambiare la disciplina dei licenziamenti, in Lavoro e Diritto n. 4/2024, 585 ss.

[2] Secondo i dati del Dossier Cantiere Italia -Lavoro su La Repubblica 14 settembre 2024, cit. da P. Saracini , Stabilità del lavoro e contratto a termine nell’attuale stagione referendaria, in Lavoro e Diritto n.4/2024 , 632 anche per ulteriori riflessioni sul tema.

[3] Cfr  O. Bonardi, Appalti e sicurezza sul lavoro: le ragioni del referendum proposto dalla Cgil, in Lavoro e Diritto, n.4/2024, 611

L'autore

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Stefania Scarponi

Laureata a Bologna dove vive, ha svolto per alcuni anni la professione di avvocata. In seguito, è diventata Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro presso l’università di Trento, dove è stata altresì componente del Comitato direttivo del Centro interdisciplinari studi di genere, e ha insegnato inoltre presso le Università di Bordeaux4 e di Paris Nord- Sorbonne. Socia fondatrice di Giudit-Giuriste d’Italia, negli anni ’90 ha fatto parte del Collegio Istruttorio del Comitato per le pari opportunità del Ministero del Lavoro. Attualmente fuori ruolo, è componente del BCCE (Berkeley Center on Comparative Equality and Antidiscrimination Law) nonché del comitato scientifico delle riviste Lavoro e Diritto e Rivista Giuridica del Lavoro. Ha diretto ricerche nazionali ed europee, e ha numerose pubblicazioni in tema di diritto sindacale (Rappresentatività e organizzazione sindacale, Cedam 2003 e di diritto antidiscriminatorio (da ultimo Diritto e Genere. Temi e Questioni, Editoriale Scientifica 2020.