Intervista a Roberta Mori a cura di Sabia Braccia

Roberta Mori, nata il 9 settembre 1971 a Castelnovo di Sotto (Reggio Emilia), è Consigliera della regione Emilia-Romagna e Portavoce della Conferenza nazionale delle democratiche del Partito democratico.

Si sente spesso parlare di “leadership femminile” e “leadership femminista” e bisogna dire che soprattutto nel nostro Paese questi due modelli spesso non vanno di pari passo. Prendiamo per esempio la Segretaria Schlein e la Premier Meloni; quali sono le differenze delle due leader nel modo di intendere la parità?

Innanzitutto il concetto di leadership va approfondito: una leadership femminile è una leadership che banalmente viene interpretata da una donna. Sicuramente è già una conquista pensando ad un tempo presente in cui i retaggi patriarcali del passato non hanno consentito di sfondare il tetto di cristallo. È vero che c’è una femminilizzazione in vari settori, ma quando si arriva all’apice della carriera in posizione di comando oggettivamente si fa veramente fatica ad interpretarle e ad essere protagoniste. Ma basta essere donne per essere una leader, una guida, un capo di governo per esempio, che ha a cuore i destini delle altre donne? No, non basta. Non basta perché per potere essere all’altezza delle discriminazioni secolari che hanno marginalizzato le donne e le ragazze in tutti gli ambiti della società, discriminazioni che ancora ci vengono consegnate dalle statistiche che nel tempo sono migliorate in alcuni punti ma che ancora gridano vendetta. È chiaro che una leadership femminista è una leadership interpretata da un profilo femminile, ma che ha ben chiaro che la questione femminile è una leva di sviluppo per tutta la società, perché è una leva di profonda innovazione. Non è soltanto una leva di giustizia sociale, perché è una leva culturale, sicuramente di giustizia sociale, di equità, di uguaglianza sostanziale (art. 3 della Costituzione), ma anche di progresso e di civiltà. Non è sufficiente avere una donna al comando, ma ci vuole una donna che aiuti le altre ad uscire dal velo di invisibilità, di precarietà, di marginalizzazione culturale, politica, economica, occupazionale in cui siamo relegate da tanto tempo. Perché dico che “non basta essere donne ma bisogna avere cultura di genere”? Bisogna avere una profonda consapevolezza del genere a cui si appartiene e dei destini che questo genere ha dovuto attraversare per secoli arrivando fin qui e avendo bisogno di accelerare il processo emancipativo della società attraverso leader femministe, che in modo trasversale e intersezionale, aiutino le altre donne. L’inganno della meritocrazia, per cui basta il merito, non è vero. Se bastasse il merito non staremmo in questo modo. In base alle statistiche siamo quelle che si laureano prima, vinciamo concorsi pubblici, dovremmo essere al vertice delle partecipate pubbliche, di tutti i contesti pubblici e privati, al vertice di governo… ma così non è. C’è una potentissima leva di cambiamento culturale che una leader femminista può interpretare e una leader solo femminile no.

Sì, ci sono discriminazioni multistrato che davvero intersecano più piani del nostro vivere sociale; si pensi ad un tema come quello dei crash test delle auto, tutti basati su modelli che rappresentano l’uomo di peso e di statura media (motivo per il quale le donne si feriscono maggiormente negli incidenti automobilistici)…

C’è anche per esempio tutto il tema della medicina di genere e della salute di genere, un tema grandissimo; che la ricerca in qualche modo coinvolga come riferimento il maschio caucasico di 80 kg, bianco, è perché è più stabile. Non importa solo che sia stabile, si devono investire le risorse necessarie per consentire alle donne di avere gli stent della lunghezza giusta per i nostri bypass cardiaci, che ci siano i dosaggi giusti per le nostre prerogative – anche di instabilità che è una caratteristica delle donne. Bisogna essere consapevoli delle opportunità che ci vengono tolte e dei rischi cui siamo esposte.

Attualmente sei Consigliera regionale dell’Emilia-Romagna. Dieci anni fa, in questa regione e sotto la tua presidenza, la Commissione parità ha realizzato una Legge Quadro per la parità e contro le discriminazioni di genere, allora davvero all’avanguardia in Italia. Come è cambiata la situazione da allora, quali obiettivi sono stati raggiunti e su cosa è ancora necessario lavorare a livello regionale?

Io sono molto soddisfatta dei dieci anni trascorsi e di quello che ha rappresentato questa Legge Quadro per la parità e contro le discriminazioni di genere, ma ovviamente del tutto insoddisfatta per quello che potrebbe essere l’attuazione di questa legge – l’insoddisfazione è anche un elemento di rafforzamento delle pretese, della passione e della forza che metti per ottenere le cose e gli obiettivi. Innanzitutto perché ci venne in mente di promuovere una legge di questo tipo? Semplicemente noi pensavamo, e pensiamo ancora, che la Convenzione di Istanbul sia un riferimento assoluto per le politiche di genere e di parità e gli obiettivi sistemici e integrati che possono davvero sviluppare in qualche modo anche buone prassi, finanziamenti contro la violenza sulle donne, nell’occupazione, nella cultura, nella sanità…

Ovviamente era un’opera omnia come puoi immaginare, una Legge Quadro che intersecava tutti questi settori con un mainstreaming di genere molto potente. Sono contenta perché dai 250.000 euro iniziali siamo passati a oltre 20 milioni di euro di finanziamento: le leggi infatti sono inutili se non vengono finanziate. Non si fanno “le nozze con i fichi secchi”, soprattutto per le politiche di genere e di parità. Per le politiche antidiscriminatorie è assolutamente necessario che vengano fuori le risorse necessarie, e lo dico perché altrimenti noi perpetuiamo una sorta di inganno, per cui basta la passione, come dire l’ispirazione politica, basta crederci e ci siamo già. No, ci vogliono anche i denari, perché i denari ricompensano le professionalità, sostengono i progetti, danno una mano alle persone. Non è secondario, perché le nostre delegate alle pari opportunità nei comuni spesso si trovano ad essere fin troppo creative perché con pochissimi mezzi e pochissimi strumenti riescono a fare grandi cose anche se non è giusto. Noi riteniamo infatti che questa leva di trasformazione e di cambiamento davvero sia importante per tutti e per tutte, non solo per noi.

Sul tema delle risorse sono molto contenta. Le leggi devono servire a costruire percorsi di finanziamento e di progettualità strutturali, perché altrimenti ci sono iniziative meritevoli che però, senza un filo logico e senza un sostegno forte e potente delle istituzioni, diventano iniziative che hanno molta meno efficacia. Soprattutto sui servizi, ad esempio sui nostri centri antiviolenza, noi abbiamo costituito il coordinamento dei centri, li abbiamo praticamente inseriti come protagonisti della nostra programmazione. Ed eravamo antesignani della Legge del terzo settore, che adesso invece in qualche modo ritiene la coprogettazione e la collaborazione amministrativa nel terzo settore elementi di grande importanza. Ecco noi già nel 2014 abbiamo introdotto questo e i servizi per uomini autori di violenza, che all’epoca fu veramente una cosa abbastanza nuova.

Il processo di accelerazione che queste politiche e queste normative producono avviene se la filiera in qualche modo tira tutta dalla stessa parte. Così puoi avere una certa velocità per raggiungere gli obiettivi. Se invece hai uno stato e un governo che non credono e non investono in queste politiche strutturali, è chiaro che puoi avere un po’ di problemi. Se abbiamo un “codice rosso”, quindi diciamo così un impianto di repressione abbastanza buono, è anche vero che dal punto di vista della prevenzione si fa pochissimo. La prevenzione la fai se credi nell’obiettivo cioè nell’autodeterminazione femminile. In caso contrario non fai prevenzione e ti abbandoni a ciò che accade, perché tanto la responsabilità penale è personale, mentre invece, come dire, perdi il fenomeno e l’analisi fenomenologica del patriarcato e dell’oppressione – anche soft –  perché abbiamo regimi totalitari con oppressione molto forte e visibile e regimi anche democratici dove abbiamo assoggettamento e condizionamento sociale che spesso non vengono neanche percepiti immediatamente dalle ragazze.

Sicuramente gli obiettivi che sono stati raggiunti sono da un lato la costituzione del Fondo per l’imprenditoria femminile, con finanziamenti certi, che va a supportare lo sviluppo delle nostre imprenditrici e un po’ a superare la precarietà delle iniziative. L’autoimprenditorialità non è soltanto un vezzo, ma dal Covid in poi c’è stata proprio l’esigenza di reinventarsi, perché molte si sono dimesse per poter fare da caregiver. Abbiamo sicuramente rafforzato la nostra rete di contrasto alla violenza sulle donne, sia con i 22 centri antiviolenza, che con un’organizzazione sociale diffusa che si occupa di questi temi con competenza. Bisogna infatti stare molto attenti alla narrazione sulla violenza contro le donne. Le donne non sono sempre vittime. Si trovano talvolta in condizioni di essere offese, violate o oppresse, ma non sono deboli, e soprattutto la violenza non è un destino. Lo dico perché altrimenti abbiamo come sfondo un approccio un po’ paternalistico sulla donna che va difesa – e va bene anche questo elemento per ingaggiare le persone e le istituzioni – ma non deve diventare diciamo un’arma a doppio taglio, per non riconoscere alla donna una soggettività, un protagonismo e un’autodeterminazione.

Realizzare una democrazia paritaria è il nostro obiettivo, dove “paritario” non significa essere uguali agli uomini ma avere riconoscimento e rispetto uguali e pari opportunità. Tra gli obiettivi raggiunti c’è la medicina di genere. Anticipando infatti i Decreti Lorenzin, abbiamo cominciato dei percorsi di responsabilizzazione anche delle aziende sanitarie. Abbiamo introdotto la costituzione di parte civile anche della Regione per poter rafforzare anche i risarcimenti alle vittime quando diciamo ci sono degli episodi veramente molto gravi ed impegnativi. Abbiamo portato un  filone di pensiero anche nell’ambito del linguaggio delle prassi regionali sui temi delle politiche di genere e di parità, nella cultura, nelle progettualità e nelle scuole. Chiaramente ci sono ancora molti obiettivi da perseguire, ma come puoi immaginare è una Regione che ha necessità di avere diciamo un Governo di riferimento, uno Stato di riferimento, un sistema di riferimento.

In un’intervista rilasciata mesi fa hai dichiarato che lo slogan “donna, vita libertà” delle sorelle iraniane è richiamato dall’espressione “libertà, autonomia e autodeterminazione”. Quanto è fondamentale l’autodeterminazione delle donne e perché fa paura alla destra al Governo?

Quando penso all’impegno delle donne nel mondo ad affermare semplicemente anche un pensiero, una parola, un modo di essere che in alcune parti del mondo le porta ad essere per questo lapidate, uccise, segregate, penso che questo ci consegni una responsabilità come donne di sistemi democratici molto grande, una responsabilità politica non solo per noi stesse ma per trasformare la narrazione e la cultura mondiale.  L’autodeterminazione è innanzitutto il rispetto del corpo delle donne, e questo è molto importante, perché il corpo delle donne è sostanzialmente lo strumento di usurpazione maggiore che spesso il maschile usa nelle guerre e nelle politiche. Questa autodeterminazione molto legata alla libertà di scelta delle donne è la cosa più incontrollabile per il sistema patriarcale. L’autodeterminazione delle donne, soprattutto per la destra reazionaria, rende il sistema instabile, rende la libertà delle donne una minaccia alla famiglia tradizionale, al potere di interdizione maschile. Se colleghiamo tutti i puntini, emerge anche il potere rigenerativo femminile. Le donne hanno un potere di innovazione dato dal fatto che non sono corrose dal potere, perché non lo hanno avuto. In generale le donne si approcciano al potere con quel minimo di timore reverenziale rispetto a un ignoto che le fa essere più rispettose, tant’è che le statistiche dei grandi gruppi nazionali ci dicono che i consigli di amministrazioni retti da donne sono più stabili e corrono meno rischi con operazioni azzardate.

Come possiamo interpretare i risultati delle europee e le elezioni delle donne democratiche al Parlamento, a fronte di una campagna elettorale piena di incontri, dibattiti e riflessioni che ha visto il Partito democratico muoversi su tutto il piano nazionale con la tua attivissima partecipazione?

Le elezioni europee in Italia ci hanno fatto ben sperare, prima di tutto perché non c’è stato uno sfondamento della destra radicale. Il 24% del Partito democratico, che era dato da tutti i sondaggi molto al di sotto rispetto al risultato ottenuto, è chiaro che ci ha particolarmente gratificato, come ci ha gratificato la composizione delle liste, perché abbiamo avuto un mix di personalità dentro e fuori il partito molto attrattivo e molto competitivo e competente. In particolare sono fierissima e sono molto orgogliosa della delegazione femminile che noi mandiamo in Parlamento, ma sono ancora più orgogliosa di quelle che rimanendo fuori hanno fatto un servizio alla causa femminista e al partito. Ho incrociato personalità di giovani donne molto competenti, molto impegnate: una nuova generazione che vuole esserci con determinazione e che non si lascia intimidire. Sono diventate protagoniste di una narrazione importante che sta vedendo un trend in crescita, perché noi eravamo al 36% di donne – sempre al di sotto del 50 e 50 che vorremmo – ma siamo molto soddisfatte perché  abbiamo la più numerosa delegazione in Parlamento.

Le elezioni europee hanno visto comunque un rafforzamento delle destre, perciò ci conforta pensare che le nostre battaglie, i nostri obiettivi e il nostro impegno politico siano capaci di esprimere una visione di società diversa. Il primo atto che ha fatto la nostra delegazione è quello di sottoscrivere la Carta europea dei diritti delle donne che è stata elaborata e dal nostro gruppo e dai socialisti europei, quasi a ribadire la centralità di un protagonismo femminile che loro vogliono interpretare al meglio in modo autentico, libero e democratico rispettando i trattati fondativi dell’Unione Europea.

A marzo sei stata eletta Portavoce nazionale della Conferenza delle Democratiche. Quali sono i compiti che la Conferenza svolge, e in che misura riesce a porsi come interlocutore politico capace di analizzare e fronteggiare le disparità sociali legate al genere? In uno Stato come il nostro evidentemente c’è sempre più attenzione, soprattutto giovanile, a questi temi – attenzione testimoniata dal fatto che sia alle Primarie del PD che nel tuo caso hanno votato molti non tesserati PD. 

Il nuovo corso della Conferenza, iniziato il 9 marzo con la mia proclamazione cerca di essere molto concreto e strutturale,. Abbiamo circa 14.500 iscritte attive e aderenti alla nostra piattaforma e quindi un compito non semplice, soprattutto perché le conferenze regionali sono 10 su 20 regioni. Quindi la priorità sarà quella di dotarci in tutte le regioni di conferenze regionali, cioè di collettivi organizzati e impegnati in prima linea a veicolare messaggi di uguaglianza di genere, progetti e collaborazioni, alleanze sociali e politiche sugli obiettivi di convergenza massima. Ci interessa molto l’occupazione delle donne, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, tutto che ci sta togliendo questa destra nel PNRR come le condizionalità trasversali per l’occupazione femminile e giovanile che erano fra le idee di cui eravamo più orgogliose.  È finito in nulla anche il Piano nidi, che doveva supportare fortemente la filiera dei territori, delle politiche educative e del supporto alla genitorialità perché non si può sempre e solo parlare di maternità. Anche per quanto riguarda i temi del salario minimo (sono soprattutto le donne ad essere sfruttate nel lavoro povero), l’autonomia differenziata, il premierato… Insomma, noi vorremmo proprio fare delle elaborazioni che inseriscono lo sguardo di genere in questi macro-temi perché se è vero che possono essere strumenti lesivi per la democrazia, per le donne è ancora peggio. La Conferenza nazionale è un organismo previsto dal Partito democratico a cui possono aderire sia donne con la tessera di partito sia quelle che non ce l’hanno, ma che si riconoscono nell’impianto femminista e di pari opportunità contro il patriarcato che noi in qualche modo vogliamo promuovere.

Il compito non è solo esterno, ma anche interno al partito, perché noi a differenza di altri pensiamo che dobbiamo partire da noi stessi per il cambiamento: nei nostri circoli, nei nostri territori, valorizzando le nostre competenze, le compagne, le amiche, le democratiche. Dobbiamo essere convincenti nei confronti dell’esterno. C’è stato un imbarbarimento anche nei comportamenti, nei modi, sono state sdoganate posture politiche davvero inaccettabili come “stai zitta”, “non parlare, torna a casa”, “chi ti vuole”… si tratta delle nostre rappresentanti elette dal popolo e quindi rappresentative tanto quanto gli uomini. C’è anche una modalità di intimidazione, di svilimento dell’impegno femminile che registriamo essere in grande aumento, per cui come Conferenza stiamo cercando di mettere in campo alcuni strumenti anche culturali e politici per contrastare questa deriva. Prima di tutto costituiremo la Rete delle amministratrici e delle elette, per fare in modo che chi è nelle istituzioni abbia strumenti politici specifici per contrastare questi argomenti. Poi si cercherà di implementare le buone prassi territoriali, perché le amministratrici non si sentano sole e le consigliere comunali anche del più piccolo paesino disperso possano sentirsi parte di un sistema di sorellanza competente e coraggiosa. Poi promuoveremo la Scuola di formazione democratica e femminista per velocizzare i processi di uguaglianza sociale e di genere.

Se, come dice il World Economic Forum, ci metteremo 139 anni per arrivare alla parità, noi serviamo a mettercene di meno, se continuiamo a lavorare su questi temi e a promuovere un pensiero critico femminista. Siamo poi impegnate nell’elaborazione del pensiero politico nel campo della pace e dei diritti umani, perché la pace è un modo di essere e di pensarsi nel mondo.

Una Conferenza nazionale cerca di essere questo e cerca di esserlo in collettivo. Perché noi diciamo che si può pensare che alla fine basti farcela da sole, con il proprio merito e la propria competenza, ma la battaglia femminista ha un carattere orizzontale, è inclusiva, collettiva perché sono i popoli, i gruppi e i movimenti che cambiano la storia – poi è chiaro che ci possono essere singole personalità importanti. Un esempio di quello che sto dicendo è nel libro Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia della Fondazione Nilde Iotti, un manuale che dice quanto pensiero c’è in quelle leggi che però spesso non sono rivendicate, non sono attuate o sono furbescamente male interpretate. Si pensi alla Legge 194 e a quanto la destra prova a mortificare la soggettività e l’autodeterminazione femminile inserendo gli anti-abortisti nei consultori. È anticostituzionale, perché benché i consultori siano servizi a bassa intensità di cura, sono però servizi pubblici laici di cura, dove le donne devono entrare per essere ascoltate e sostenute, assistite, mai giudicate. Si pensi poi alle proposte sulla capacità giuridica del concepito e simili, che mettono in contrapposizione la vita della persona che già è con quella della persona in divenire. Insomma, una Conferenza nazionale ha tanti temi di cui occuparsi e molti spazi di intervento da presenziare, sempre nel modo più partecipato, collettivo e competente possibile.

L'autore

Avatar photo

Sabia Braccia

Nata a Lanciano (CH) nel 1999 ha vissuto a Urbino e a Parma per laurearsi, rispettivamente, in "Scienze umanistiche. Discipline letterarie, artistiche e filosofiche" e in "Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale". Appassionata di storia, antropologia e ambiente, collabora con vari giornali online, segue un corso di Giornalismo d'inchiesta ambientale e, come volontaria insieme ad un nutrito gruppo di giovani amanti della natura, si occupa della manutenzione e della comunicazione social della Riserva Naturale Regionale Lago di Serranella, una delle oasi WWF d'Abruzzo.