Conobbi Franco Basaglia in Francia. Avevo 25 anni e vivevo dal 1966 a Lione, dove avevo trovato lavoro nel reparto universitario di neuropsichiatria dell’ospedale Vinatier. Per arrotondare lo stipendio, facevo anche da traduttore in convegni scientifici franco-italiani. Fu così che mi capitò di lavorare per un incontro franco-italo-québécois che si tenne a Courchevel nel 1968. Per l’Italia partecipavano alcuni psichiatri di Varese e Franco Basaglia, allora sconosciuto. Mentre traducevo gli interventi, che erano tutti schierati in favore della psicoterapia istituzionale, ribollivo di rabbia. Al Vinatier, infatti, facevo parte di un gruppo di giovani psichiatri che la criticava e riteneva che la psicanalisi e le varie scuole di psicoterapia coprissero ipocritamente l’orrenda realtà del manicomio.

Ormai rassegnato a sentire quegli interventi conservatori e noiosi, saltai sulla sedia quando un giovane italiano pieno di tic si mise a sostenere che il manicomio andava abolito perché era un luogo di pura custodia dove erano ignorati gli elementari diritti della persona e perché non curava nessuno, anzi esprimeva senza veli le dinamiche di esclusione e violenza che nella società si esercitano sui più deboli. Si chiamava Franco Basaglia ed esprimeva con chiarezza quello che il mio gruppo già pensava confusamente. Ce n’era di che svegliarmi dal torpore di prima. Tanto più che questo intervento suscitò reazioni negative da parte di molti partecipanti al convegno e innescò un dibattito molto animato. Io continuavo a tradurre, ma fu ben presto evidente che sintetizzavo senza entusiasmo gli interventi dei conservatori e valorizzavo quelli di Basaglia. Se ne accorse, purtroppo, anche l’organizzatore del convegno che si arrabbiò molto. Non fui pagato per il mio lavoro, ma conquistai l’amicizia di Basaglia.

Lo invitai a Lione, a tenere una conferenza all’Ospedale Vinatier. Lui venne e volle conoscere Paul Balvet, che ammirava molto. Andammo tutti al Café du Soleil nel quartiere medievale di Saint Jean e rimanemmo a lungo a discutere del manicomio e del futuro della psichiatria. Pochi giorni dopo mi telefonò per dirmi che andava a Cuba dove sperava di avere un incarico per riformare la psichiatria e mi chiese se sarei andato con lui. Io ero entusiasta, ma Basaglia scoprì ben presto che la psichiatria cubana era ancora dominata da alienisti tradizionali e non ebbe mai l’incarico che sperava. Rimanemmo in contatto.

Basaglia sapeva che avevo fatto delle ricerche su Franz Fanon e si era messo in mente di farmi scrivere un libro con l’obiettivo di analizzare il contributo rivoluzionario che, secondo lui, Fanon aveva dato anche alla psichiatria. Andammo insieme dall’editore Einaudi e incontrammo Giulio Bollati che era entusiasta dell’idea. La cosa però non funzionò, perché Fanon era stato, sì, rivoluzionario come sociologo e politico, ma scoprii ben presto che, come psichiatra, invece, si era limitato ad aderire alla scuola di psicoterapia istituzionale. La coerenza che Basaglia voleva vedere tra il Fanon sociologo e politico e il Fanon psichiatra, per me, non esisteva. Il primo era un rivoluzionario, il secondo un modesto e prudente progressista.

A Lione partecipavo a un’esperienza di lavoro psichiatrico sul territorio. Ne parlammo e Basaglia mi chiese di guidare una troupe della RAI che la documentasse per mostrare in Italia che esistevano alternative alla psichiatria manicomiale. La trasmissione ebbe successo e lui la usò per contribuire alla campagna culturale che sfociò nella riforma anti-manicomiale della psichiatria italiana. Nel frattempo, era stato chiamato da Mario Tommasini, all’epoca assessore della Provincia di Parma, alla direzione dell’Ospedale Psichiatrico di Colorno, che dopo l’assemblea studentesca del 2 febbraio 1969, era stato occupato e gestito dagli studenti per 35 giorni. Basaglia mi telefonò e mi disse “Non è Cuba, ma verresti a Parma con me?”. Fu così che mi ritrovai a Colorno con un incarico di Primario. Avevo 29 anni. L’incontro con Basaglia aveva fatto esplodere la mia voglia d’impegnarmi a lottare contro i manicomi. Ma contò anche molto l’atmosfera di entusiasmo che lui sapeva creare e che attirava persone come Franco Rotelli, Peppe dell’Acqua e tanti altri. Ricordo quegli anni a Parma e poi a Trieste non come un lavoro, ma come una sorta di avventura animata da grandi affetti e da una ricerca permanente per andare oltre. Oltre che? Difficile dire, ma certo chi ha vissuto quell’esperienza sa di cosa parlo. Tutto era estremizzato. Non solo la pratica di cambiamento radicale della realtà manicomiale, ma anche i sentimenti delle persone coinvolte.

La riunione delle cinque

A Trieste, Basaglia si era ricavato un piccolo appartamento nella direzione dell’Ospedale e abitava là. Io abitavo appena fuori dall’Ospedale. Quello che accadeva nell’Ospedale non era il nostro lavoro, ma l’essenziale della nostra vita. Ogni giorno, alle cinque del pomeriggio, c’era una riunione con Basaglia e discutevamo di tutto, Quello che era successo, quello che doveva succedere, cos’era importante e così via.

La riunione delle cinque fu una scuola per tanti giovani attirati a Trieste dall’idea che là si rivoluzionava la psichiatria. Basaglia detestava le discussioni che lui chiamava “ideologiche” e concentrava l’attenzione su quello che succedeva e sulle contraddizioni della pratica psichiatrica. Nei miei quattro anni di permanenza a Trieste non l’ho mai sentito discutere di teoria, di psicanalisi o di scuole psicoterapiche. Ma era comunque curioso e aperto alla discussione con chi aveva idee diverse dalle sue. Per esempio invitò a Trieste Michele Risso, uno psicanalista che aveva lavorato in Svizzera e aveva adottato, tra i primi, un approccio etno-psichiatrico. Michele poneva il problema della formazione dei giovani. Sapeva che avevo lavorato per anni in Francia, in esperienze molto influenzate dalla psicanalisi, e mi rimproverava di non fare nulla per formare i giovani al nuovo approccio triestino. In questa sua campagna aveva anche coinvolto Franca Ongaro, la moglie di Basaglia, e una volta aveva organizzato un incontro con Franca e me. L’incontro era a casa mia, appena fuori dall’Ospedale. Mentre stavamo discutendo, arrivò Basaglia, molto contrariato, che ci fece una perorazione appassionata della formazione sul campo attraverso le pratiche e la critica delle pratiche stesse e non attraverso corsi basati su questa o quella scuola di psichiatria. Inutile dire che Michele rinunciò ad andare avanti sul tema della formazione.

La riunione delle cinque era certamente un momento di riflessione collettiva, ma era anche un palcoscenico dove si giocavano simpatie, narcisismi, affetti e alleanze. A Trieste, avevo portato tutta la mia passione per il cambiamento. Avevo creato il primo reparto misto; avevo svuotato un padiglione in cui fu creato il Laboratorio dove, tra molte altre iniziative, fu costruito il Marco Cavallo blu che ancora gira il mondo per diffondere la lotta ai manicomi; avevo coinvolto gli infermieri e i volontari nel lavoro di svuotamento dei reparti e nell’assistenza domiciliare; avevo stabilito collaborazioni con cooperative, tra cui la Cooperativa Lavoratori Uniti (CLU) creata in seno all’Ospedale nel 1972; avevo creato collegamenti con vari gruppi e associazioni della città e così via. A un certo punto mi ero messo in mente che occorresse collegarsi con i medici di famiglia, istituti universitari e altri soggetti. Il lavoro sulla salute mentale sembrava “andarmi stretto”. Volevo “diluire” la psichiatria negli altri servizi di salute, proprio mentre Basaglia cercava, con la legge 180, di creare servizi psichiatrici forti e dotati dei mezzi sufficienti per lavorare sul territorio.

Detto tra parentesi, avevamo ragione tutti e due. Lui perché la legge 180 segnò la fine dei manicomi e favorì la diffusione di buone esperienze di lavoro territoriale. Io perché l’organizzazione dei distretti sanitari di base, previsti dalla legge generale di riforma sanitaria del 1978, consente di lavorare meglio per la salute mentale e permette di coinvolgere un maggior numero di attori sociali.

In ogni caso, nella primavera del 1974, scrissi una lettera di dimissioni di 48 pagine, di cui limitai rigorosamente la circolazione alle persone che erano direttamente interessate, e me ne andai proprio mentre un concorso indetto ad hoc poteva conferirmi ufficialmente il ruolo che avevo svolto solo come incaricato. Le mie dimissioni coincisero, del tutto occasionalmente, con la mia condanna a tre giorni di prigione (poi amnistiati) per aver ospitato a casa mia un infermiere francese dimenticando di segnalare la cosa alla questura. Anche Basaglia, che lo aveva ospitato in ospedale, aveva ricevuto un “avviso di reato”. Entrambi avevamo lo stesso avvocato, pagato dall’Amministrazione Provinciale. Solo che Basaglia fu assolto ed io condannato. Ricordo che, uscendo dal tribunale, Basaglia mi chiese di fermarmi a bere un caffè e vidi che era sinceramente commosso mentre mi diceva che lui non c’entrava nulla e che aveva fatto tutto l’avvocato da solo. E certamente fu così, perché Basaglia non era uomo da ricorrere a questi mezzucci e anche perché mi voleva bene e non desiderava che io me ne andassi. Certo è che da allora i miei contatti con lui s’interruppero.

Formai un nuovo gruppo, girai per l’Italia proponendo a diverse pubbliche amministrazioni di realizzare una struttura territoriale che si occupasse dei bisogni sanitari di base, inclusi quelli di salute mentale, e presi la strada che mi ha portato a realizzare l’esperienza del Centro di Medicina sociale di Giugliano (prototipo del distretto sociosanitario di base), e a lavorare per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Esteri e delle Nazioni Unite, diffondendo in molti paesi quello che avevo imparato lavorando con Basaglia. Per alcuni anni non lo rividi. Fino a che non fu invitato da qualcuno a tenere una conferenza a Napoli, dove ormai l’esperienza di Giugliano era molto conosciuta ed era stata anche oggetto di trasmissioni della TV nazionale. La grande sala del Maschio Angioino dove si teneva la conferenza era gremita e l’atmosfera era elettrica perché molti ritenevano che ci sarebbe stato uno scontro tra lui e me. Lui fece un intervento molto bello sulla necessità della lotta al manicomio e alle dinamiche di esclusione nella società. All’apertura del dibattito, io chiesi la parola per primo. Deludendo le attese di chi pregustava lo scontro, dissi che ero completamente d’accordo con quello che aveva detto e lo ringraziai di essere venuto a Napoli a sostenere la nostre lotta contro il manicomio e per la creazione di servizi territoriali più vicini ai bisogni della gente. Basaglia si alzò ad abbracciarmi e volle che io sedessi accanto a lui fino alla fine della conferenza. Eravamo di nuovo assieme come nel passato. L’ultima volta che lo vidi fu a Venezia, quando ormai stava perdendo la sua battaglia contro la malattia che lo aveva colpito. “Ah, ecco il napoletano” disse, visibilmente contento di vedermi. Di quell’ultimo incontro non ricordo altro; forse la mia mente si rifiuta di accettare la realtà della sua scomparsa. Scomparso, infatti, non è. Ha esercitato e continua a esercitare una grande influenza su tante persone e il suo approccio è oggi più che mai necessario. Non solo perché le dinamiche manicomiali persistono nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali generali, ma anche perché la psichiatria corrente è ancora molto ancorata ai vecchi schemi clinici e repressivi.

Basaglia odiava “le ideologie”, cioè le chiacchiere di chi non faceva nulla per cambiare gli aspetti inaccettabili del funzionamento corrente della società, ma era certamente interessato a conoscere le idee che potevano aiutarlo a comprendere la realtà e a trasformarla. Le cercava nella fenomenologia, nell’esistenzialismo, nel marxismo e in altre scuole di pensiero. Egli non “teorizzava”, però, le pratiche rivoluzionarie che egli stesso promuoveva, come se temesse di cadere in trappola, di rimanere invischiato anche lui nel pantano delle ideologie e dell’autoesaltazione. Michele Risso, invece, rimproverava me e qualche altro, di non estrarre dalle pratiche le idee che potevano aiutare anche gli altri a liberarsi della psichiatria tradizionale e a costruire una psichiatria nuova. Certo è che l’approccio usato a Parma e a Trieste si è diffuso ed ha influenzato il funzionamento dei servizi di salute mentale, in Italia e in molti altri paesi. Paradossalmente, questa diffusione è stata facilitata dal fatto che non esisteva una scuola “basagliana”. Far riferimento a Basaglia, significava semplicemente essere impegnati nella critica alle dinamiche di esclusione e violenza che caratterizzano le società diseguali e nella ricerca di vie alternative.

Io, per esempio, sono stato basagliano prima nella lotta contro il manicomio, poi nel lavoro per aprire i servizi territoriali alla partecipazione attiva degli attori sociali e, infine, nella cooperazione internazionale, quando ho realizzato programmi di “sviluppo umano” che servivano ad aiutare le popolazioni vittime di catastrofi naturali, guerre e grande povertà a organizzarsi per far fronte alle situazioni di estrema difficoltà in cui si trovavano.

Lavorando con Basaglia, ho imparato a non separare il lavoro sulla mente da quello sulla realtà in cui la persona vive. Ho imparato che quando si vuole curare una mente che funziona male (per esempio delira) occorre sempre agire anche sulla realtà, cercando di rimuovere o almeno attenuare i fattori traumatici sociali, istituzionali, culturali e politici che la caratterizzano. Ho anche imparato che non si può curare nessuno senza offrirgli anche la possibilità di essere attivo nel processo della cura. E ho infine imparato che, molto spesso, curare significa creare nicchie di nuova socialità che anticipano l’utopia di un mondo accogliente per tutti. Allora sì che vale la pena essere psichiatri, perché significa lavorare per cercare di curare, insieme, chi sta male, se stessi e il malfunzionamento di una società malata.

In copertina: Albrecht Dürer, La nave dei folli (xilografia per Sebastian Brant, Das Narrenaschiff, 1498)

L'autore

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Luciano Carrino

Luciano Carrino, psichiatra, è presidente della KIP International School che, tra le sue attività, ha anche realizzato il Padiglione “KIP Territori Attraenti per un Mondo Sostenibile” all’Expo Universale 2015 di Milano. E’ stato vice presidente della Rete per la lotta contro la povertà dell’OCSE/DAC (2011-12) e ha coordinato le linee-guida dell’OCSE su sviluppo verde e riduzione della povertà per il tema “innovazione”. Al Ministero degli Esteri è stato dal 1985 al 2010, esperto dell’Unità Tecnica Centrale della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS), dove ha coordinato l’area tematica “sviluppo umano, salute e pari opportunità” ed è stato responsabile dei programmi Italia/Nazioni Unite di sviluppo umano in Africa, Asia, Mediterraneo, America Latina ed Europa dell'Est. E’ stato consulente dell'OMS per gli aiuti d'emergenza, della Commissione Europea per la lotta contro la povertà, del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo e del Parlamento Europeo per la prevenzione e gli interventi nelle zone di conflitto. E' stato iniziatore della cooperazione decentrata che le Regioni e gli Enti Locali realizzano, nell'ambito di programmi delle Nazioni Unite, in diversi paesi del mondo. Prima di occuparsi di cooperazione ha lavorato con Franco Basaglia al superamento dei manicomi e poi ha diretto il Centro di Medicina Sociale di Giugliano (Napoli), prototipo dei Distretti sociosanitari di base. Insegna in diverse università. E' autore, tra l’altro, dei libri: “Lo sviluppo delle società umane, tra natura, passioni e politica”, Milano 2014, “Perle, Pirati e Sognatori. Dall’aiuto alla nuova cooperazione internazionale”, Milano, 2016 e del Manuale dell’OMS “Le Personnel Local de Santé et la Communauté face aux Catastrophes Naturelles". Autore di diversi documentari televisivi per la Rai.