a cura di Sabia Braccia

Nato a Roma il 4 settembre 1968, Marco Pacciotti ha intrapreso l’impegno civile e politico con il volontariato, aiutando i bambini nelle periferie della Capitale. Nel 1990 ha fondato con alcuni amici l’associazione antirazzista “Nero e non Solo” e da allora ha continuato a occuparsi di immigrazione con l’Arci, con il Consorzio italiano di solidarietà e, in varie forme, con il Partito Democratico. Ha diretto per molto tempo, con Livia Turco, il “Forum Immigrazione nazionale del PD” e attualmente collabora con il Comune di Roma ed è membro della Direzione Nazionale del Partito Democratico e socio del CIR – Consiglio Italiano dei Rifugiati.

Partiamo dagli esordi. Fin da giovane si è dedicato al volontariato, lavorando con ragazzi provenienti da varie periferie romane. Quanto di quest’esperienza è stato utile e formativo per affrontare poi i ruoli e le sfide successive, come il suo impegno a favore dei migranti o il suo ruolo nella direzione della Sinistra giovanile nel PDS?

Chiaramente queste esperienze hanno una valenza strettamente personale. A me il volontariato è servito tantissimo, perché il suo primo risvolto è quello di aiutarci a uscire da una certa “auto-centratura”, o chiamiamolo pure egoismo, cioè il rendersi conto che intorno a noi si muove un mondo diverso da quello in cui siamo cresciuti. Un mondo con diverse esigenze, problematicità ma anche cose belle da conoscere che prima, rinchiusi nel proprio microcosmo, magari non si aveva la possibilità di incontrare. Io vengo da una famiglia molto “normale”, non vengo sicuramente da una famiglia benestante, ma rispetto a tante realtà che ho conosciuto lavorando nelle periferie romane, con bambini che avevano problematiche familiari anche molto gravi, devo dire che ho imparato tanto ed è stato davvero formativo. La politica è stata il passo successivo. Dopo tanto volontariato con il quale non si riesce a incidere fino in fondo sulle condizioni che determinano il disagio, pur svolgendo un lavoro meritorio, importante e fondamentale nella formazione umana di qualsiasi persona, ci si rende conto che serve un salto di scala: l’avvicinamento alla politica è stato quindi una ricerca di risposta a questi problemi di fondo, sistemici, della società.

È stato fra i fondatori della Onlus “Nero e non solo”, un’organizzazione di supporto per gli immigrati che fornisce informazioni (sulla legislazione), aiuto (nella compilazione di domande e documenti) e assistenza (con la questura, la prefettura, ecc). Com’è nata l’idea di questa associazione e che tipo di risposta ha generato? È oggi un modello di riferimento per gli immigrati nel nostro Paese?

L’associazione nacque come tale, lo sviluppo in onlus è avvenuto successivamente, quando io non c’ero più. È nata su una spinta quasi emotiva, a causa di un evento di cronaca nera: venne ucciso un ragazzo a Villa Literno, Jerry Essan Masslo, nell’agosto dell’89. Villa Literno era parte del triangolo dei pomodori e qui questo ragazzo lavorava; venne rapinato dei soldi che aveva guadagnato spaccandosi la schiena, lui che tra l’altro era un ragazzo rifugiato che proveniva dal Sudafrica razzista in cui ancora non si era ancora affermato il principio di uguaglianza e dignità che poi con Nelson Mandela e Desmond Tutu è diventato fondante di quella democrazia africana. Questa uccisione comportò un grande movimento giovanile con manifestazioni antirazziste e allora si pensò con l’allora organizzazione giovanile del Partito di creare un’associazione che intercettasse questo sentimento bello di eguaglianza e di solidarietà. L’associazione esordì organizzando per due anni consecutivi dei campi di solidarietà; passavamo l’estate organizzando questi campeggi in cui oltre a un riparo davamo l’opportunità di avere docce, mense, assistenza legale e medica… Fu un’esperienza anche quella molto formativa, a metà fra l’impegno sociale e politico e il volontariato. Poi sviluppatasi in tutta Italia, questa associazione ha cominciato ad offrire dei servizi organizzati a livello giovanile, ma con grande dedizione e competenza, che andavano dall’orientamento legale, all’assistenza sulle pratiche legali e, in molti casi, anche alla scuola di formazione linguistica o comunque alla creazione di occasioni di incontro. L’incontro era fra un’immigrazione ancora molto giovane per il nostro Paese e che viveva isolata dai contesti cittadini, soprattutto nelle campagne dove lavorava e che spesso si trasformavano in ghetti, alcuni dei quali ancora presenti in varie zone del Paese.

In effetti il caporalato ormai è un fenomeno molto diffuso in gran parte della Penisola…

Sì, c’è una migrazione interna di lavoratori che, per esempio, partendo dalle zone di produzione di kiwi nel Nord Italia si spostano poi agli aranceti nel Sud e viceversa. È una migrazione invisibile agli occhi del mondo del lavoro e spesso anche alle forze di polizia, una migrazione che in parte sfugge alla legalità (anche se è in crescita il fenomeno positivo della regolarizzazione dei lavoratori, in parte grazie ad alcune leggi fatte contro il caporalato). Dietro a tutto questo c’è però un tema culturale: il lavoro nero in campagna è qualcosa che ha sempre riguardato gli italiani prima e gli stranieri poi. Negli ultimi anni inoltre è tornata anche una componente di italiani, soprattutto femminile, dato che le donne in particolare fanno fatica, specie nel Sud, a essere inserite in un contesto lavorativo sano e accettano perciò di lavorare in condizioni disumane, come i loro colleghi africani.

Tornando a “Nero e non solo” credo che oggi possa essere un modello di riferimento, perché se allora si è sviluppata in modo originale come associazione politica che faceva volontariato e iniziative culturali, poi si è via via affermata come esigenza di dare una risposta complessa a un fenomeno complesso, dove non bastava fare solo il volontariato ma c’era bisogno di interdisciplinarità tra questi piani di lavoro. Allora siamo stati pionieri, senza avere la pretesa di avere insegnato niente a nessuno, dando il via a quella che è diventata una pratica quasi obbligatoria per chi si occupa di queste cose.

Ha diretto per molti anni il “Forum Immigrazione nazionale del PD”, con Livia Turco, sostenendo lo Ius Soli e il voto amministrativo per i cittadini migranti residenti. Ha sostenuto il possibile referendum sulla cittadinanza, richiesto dalle oltre 160.000 firme degli italiani, nonostante di fatto esso non vada a modificare le modalità di concessione della cittadinanza ma solo ad abbreviarne le tempistiche, ossia dagli attuali dieci anni necessari a un cittadino straniero maggiorenne ai “soli” cinque anni (come ora previsto dalla legge del 1992 per i cittadini stranieri adottati da genitori italiani)?

Sostengo qualsiasi iniziativa tesa a migliorare le condizioni di esistenza delle persone, siano esse migrati oppure no, e non faccio differenze valoriali e/o culturali. Nel merito credo che il referendum sia giusto ma non so dirle quanto servisse effettivamente un referendum anziché un’iniziativa di legge popolare o parlamentare, perché ho dei referendum un’idea quasi di sacralità. Per me, infatti, i referendum sono legati alle grandi questioni che riguardano la vita democratica di un paese e in parte questo sulla cittadinanza lo è, per cui comunque lo sosterrò. Non credo però che sia la miglior cosa possibile da fare, perché se dovessi dare una gerarchia delle priorità, e sta proprio alla politica fare questo lavoro di gerarchizzazione, prima di tutto rivedrei e rifarei, dato che ne abbiamo assoluto bisogno, un nuovo Testo unico sull’immigrazione che cestini, dato che non è modificabile, la Bossi-Fini. Devo dire che il Partito democratico ha avuto un’elaborazione feconda negli anni e adesso l’ultimo disegno di legge, a firma Del Rio, segna un punto di svolta, io mi auguro, e recepisce tante delle questioni che, come forum, abbiamo portato avanti. Questa è la battaglia politica principale.

C’è poi all’interno di questa battaglia, oppure all’esterno come iniziativa singola, l’altra grande battaglia del voto amministrativo. Io son cresciuto con un’idea della politica per cui chi vota conta e chi non vota conta meno e credo fortemente nell’auto-rappresentazione, per cui ritengo che avere in Italia milioni di cittadini d’origine straniera che non possono votare né essere eletti sia una menomazione della democrazia. Del resto in tutta Europa questo avviene per il voto amministrativo, è l’Italia che non ha recepito nel ‘94, come avrebbe dovuto fare, la direttiva europea su questo punto (o meglio l’ha recepita, ma solo parzialmente e non nella parte del voto attivo/passivo amministrativo). Credo che questo sia un vulnus democratico perché quando in un paese una popolazione pari a una regione grande italiana non può votare, pur rispettando le leggi e partecipando al benessere collettivo sotto il profilo sociale, economico e culturale, noi creiamo un buco, uno strappo nel tessuto sociale e soprattutto creiamo l’idea che si possa stare insieme con un rapporto di minorità con cittadini di “serie B” e cittadini di “serie A” e chi non vota al di là di noi benpensanti resta un cittadino di “serie B”, perché non incide direttamente sui processi che lo riguardano in quanto persona, in quanto cittadino e in quanto essere umano.

In generale direi che c’è bisogno di ripensare tutto il sistema della nostra struttura welfaristica, scolastica e così via, dato che l’Italia di quando ho iniziato a occuparmi di immigrazione negli anni Ottanta non era come assolutamente l’Italia di oggi. Anche l’immigrazione era molto diversa: allora avevamo a che fare con tantissimi uomini, soprattutto soli, spesso concentrati nelle campagne o nelle grandi città e in numero infinitamente più basso. Ora non c’è stata nessuna invasione, anzi da anni perdiamo immigrati, ma c’è una popolazione che vive qui stabilmente, tanto che parliamo di terze o quarte generazioni per alcune comunità. Generazioni con figli che qui son nati e cresciuti, che qui hanno costruito le loro vite e hanno a tutti gli effetti scelto l’Italia come seconda patria. Tenere queste persone fuori dall’Italia per quanto riguarda i diritti politici e in parte anche per quelli sociali non è qualcosa che riguarda loro ma noi, come complesso della comunità.

Per il secondo numero di questo trimestrale ho intervistato Marwa Mahmood che mi ha spiegato tutto quello che le è stato precluso, anche a livello scolastico e universitario, a causa della lunga attesa necessaria alla concessione della cittadinanza italiana…

È discriminante perché a parità di corso di studi, intelligenza, dedizione e rispetto delle regole un ragazzo nato e cresciuto qui dalla scuola all’erasmus, dalla partecipazione ai concorsi pubblici all’iscrizione ad alcuni albi professionali ha delle barriere inspiegabili e, qui mi permetto di utilizzare una categoria che in politica è particolarmente dedicata, anche immorali perché ho delle figlie e penso che se a loro fossero precluse queste possibilità impazzirei. C’è quindi un fatto umano prima che politico; c’è anche un elemento di “egoismo maturo” – come avrebbe detto Giovanna Zincone qualche anno fa – dato che l’Italia che è un paese demograficamente in declino ormai da decenni, tanto che più che d’inverno parlerei proprio di glaciazione demografica, dovrebbe guardare alla ricchezza dentro il proprio territorio e saperla valorizzare. Questo non avviene ed è un assurdo che non ha nulla a che vedere con l’ideologia politica, ma semplicemente con il buon senso… eppure c’è chi purtroppo ne fa ancora un tema di scontro politico in termini ideologici.

Attualmente è socio del CIR, il Consiglio Italiano per i Rifugiati, una onlus fondata nel 1990 per impulso delle Nazioni Unite e dotata di personalità giuridica, che ha l’obiettivo di difendere i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Da socio ha sicuramente una visione più immediata, diretta e non politicizzata della questione. Quanto crede che si stia concretamente impegnando il Governo Italiano per i rifugiati e i richiedenti asilo e quali sono le criticità che necessitano di un intervento immediato?

C’è una criticità di fondo, che ha riguardato tutti i governi ma in generale l’Italia negli ultimi trent’anni, da quando è caduta la cosiddetta riserva geografica perché c’era quella convenzione, che l’Italia aveva fatto propria, per cui si accettavano come rifugiati politici, soprattutto in una logica di blocchi contrapposti, coloro che venivano dall’est Europa. Superata quella logica ci si sarebbe aspettati che l’Italia si dotasse di un Testo unico sul diritto ad asilo, ma questo manca ancora oggi. Abbiamo tantissime direttive recepite, ma questo crea un quadro complesso dentro cui muoversi, per i volontari e le associazioni ma soprattutto per le istituzioni, perché ci sono delle sovrapposizioni operative. Ciò ha comportato la presenza di un sistema di accoglienza per cui si accede al diritto di protezione – che è garantito innanzitutto dalle Convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto e dalla nostra Costituzione – e ci si rivolge poi a un articolato complesso di leggi e di direttive che rendono complessa la gestione. Venendo a oggi e facendo un po’ di critica politica, doverosa, questo Governo nel quadro complessivo fatto da errori commessi anche in passato, aggiunge alla difficoltà la volontà di creare difficoltà vessatoria. Queste vessazioni agiscono su due fronti: il primo è per chi è già arrivato qui. L’ultimo decreto fatto sulla gestione degli immigrati già sbarcati, già accolti e già sistemati dentro le strutture d’accoglienza vieta ad esempio la possibilità della convertibilità del permesso di soggiorno da protezione a lavoro. La protezione non può essere un parcheggio, ma un momento di passaggio necessario per accogliere e aiutare la persona a inserirsi in modo completo e autonomo nella società e nella comunità in cui vive, prevedendo che questa persona possa lavorare. La possibilità di passaggio era stata fatta dal precedente Governo, e dall’allora viceministro Mauri con cui collaboravo, perché c’era richiesta, da parte degli imprenditori del territorio e dalle comunità, di forza lavoro a tutti i livelli. Chi lavora ha la possibilità di comprarsi una casa, di pagare un mutuo e ha la possibilità di uscire da quel cuneo di assistenza che è necessario – e va fatto in un primo momento – ma che poi a lungo andare lede la dignità di un uomo. Stiamo parlando di persone che vengono qui per cercare lavoro, per cambiare vita e non per essere un peso per la società che li accoglie.

Poi c’è il tema gravissimo di cui abbiamo visto l’epifenomeno con la vicenda Albania o prima ancora con il Decreto Cutro e, in generale, con la volontà di trattare i migranti che arrivano attraverso le rotte marittime o via terra (come quella balcanica, che è un’altra rotta dei disperati) e chi li aiuta come nemici e non come vittime o come salvatori. Chiunque accetta l’idea di fare migliaia di chilometri prima attraversando deserti, spesso in mano a organizzazioni criminali che li sfruttano, li vessano e a volte li violentano e poi dopo anni a volte accetta di salire su una barca, sfidando gli elementi, non lo fa per venire a toglierci qualcosa. Anziché accoglierli noi abbiamo predisposto un sistema di pattugliamento e di restringimento, coinvolgendo alcuni paesi del Sud del Mediterraneo affinché si esternalizzassero i confini di Schengen e trattenendo delle persone (come è accaduto in Libia e Tunisia in cui hanno avuto luogo ondate di razzismo pesante nei confronti dei migranti subsahariani). L’Europa su questo si è uniformata a un sentire che fa percepire queste persone come un problema da arginare o un pericolo da scongiurare, un po’ dietro la scorta di un’ideologia di estrema destra che parla di sostituzione etnica e di invasione e un po’ sotto la paura che questo scateni forze politiche o dissenso in tanti paesi: dall’Italia alla Spagna, passando per la Germania e così via. Una volta salvati in mare, anziché fare quello che andrebbe fatto, cioè portarli in un porto sicuro, le onlus e le ONG vengono costrette a viaggi lunghissimi che non hanno nulla a che fare né col diritto internazionale né con quello navale e che sostanzialmente servono a sgombrare il mare dalla presenza delle barche che intervengono. Pensiamo ai Centri in Albania: è stata un’iniziativa ideologica, pubblicitaria e ingestibile, un’iniziativa i cui costi – anche facendo un ragionamento di tipo utilitaristico, dato che quello di tipo politico e culturale è chiarissimo – e la gestione sono talmente complessi e difficili che la rendono insostenibile nel lungo periodo (diventa una voce di spesa pari a un punto di PIL nel giro di qualche anno, e tutto per poche centinaia di persone). Io penso che non solo non bisognerebbe fare quei centri fuori dall’Italia ma bisognerebbe chiudere anche i CPR che sono in Italia, perché sono dei “non luoghi” fuori da quello che è il diritto italiano.

Ritiene che i media italiani, soprattutto il mainstream, affrontino il tema delle migrazioni emulando la politica oppure che riescano a delineare un quadro realistico della situazione?

Ricordo un titolo di un’autorevole testata nazionale di riferimento, che cittadini definiscono di centrosinistra, che cadde nella trappola di associare gli sbarchi al pericolo del fatto che chi arrivava venga qui per partorire e avere figli che così diventavano italiani, con una serie di equivoci, tanto che al titolo seguiva una fotografia (senza connessione esplicita ma andava a sottolineare una sudditanza culturale, anche da parte di importanti testate, che nel tentativo di fare un’informazione corretta cadevano nell’equivoco per rappresentare la migrazione innanzitutto come un fatto emergenziale). Lì l’immigrazione si connetteva principalmente al tema degli sbarchi, si analizzava con scarsa conoscenza di quelle delle proposte in merito allo Ius Soli, per esempio, sottintendendo a un modello totalizzante e antico anglosassone dello stesso, un modello non più applicato. Qui in Italia si parla semmai di uno Ius Soli temperato, dove non c’è nessun automatismo ma c’è una richiesta da fare da parte dei genitori o del maggiorenne, quando il ragazzo diventa tale, corredata da tutta una serie di documentazioni da comprovare: solo alla fine di quest’iter lo Stato concede la cittadinanza. Tra l’ottenimento e la richiesta/concessione di cittadinanza c’è un mondo, c’è l’illuminismo: c’è lo Stato, inteso come società dove ci sono reparti che contraggono un contratto sociale. Noi siamo a una visione della cittadinanza legata al Ius Sanguinis e a una forma di rappresentazione dello Stato come Stato sovrano che concede. Queste osservazioni registrano una inadeguatezza del nostro sistema legislativo rispetto alla società. Opportuno sarebbe accorciare i tempi per la cittadinanza dei genitori e prevedere meccanismi il più possibile snelli lineari e comprensibili.

Cosa pensa invece dello Ius Scholae proposto dal Movimento 5 stelle?

Io sullo Ius Scholae la penso come il referendum, penso cioè che qualsiasi cosa è meglio di quello che abbiamo adesso, però non è risolutivo. Sono legato all’idea dello Ius Soli temperato, mentre lo Ius Scholae è una proposta presentata nel 2022 in prima Commissione, dall’allora Presidente Brescia del Movimento 5 stelle, come compromesso con la destra sullo Ius Culturae. Sono uno che fa politica per cui per me compromessi non sono necessariamente sbagliati, ma quando stanno alla realtà e hanno una loro funzionalità sociale prima e politica dopo. Lo Ius Scholae è ridotto rispetto a un tema più ampio, che è quello della cittadinanza delle famiglie con i figli nati qui, e coglie solo parzialmente la popolazione a cui fa riferimento. Alcuni studi fatti parlavano di 500.000 ragazzi e ragazze su un totale di quasi 1.000.000 e poi potenzialmente, e qui parliamo di paradossi, se parlassimo della proposta dello Ius Culturae del centrodestra, potremmo avere all’interno della stessa famiglia il caso di due figli, uno con ottimo rendimento scolastico e uno che invece fa fatica che vedrebbero il primo ottenere la cittadinanza e il secondo no. Se la scuola deve fare promozione sociale e deve creare coesione non rispetta questo principio e con un sistema di cittadinanza simile diventa un elemento di diseguaglianza e di divisione, potenzialmente perfino all’interno della stessa famiglia. Meglio di niente, ma bisogna stare attenti alla realtà dei fatti quando si fanno delle proposte, perché si possono avere come conseguenza mostri politici e diseguaglianze non volute.

Torniamo ai media e all’informazione sull’immigrazione…

Tornando ai media, credo che il problema non riguardi soltanto questo tema perché in generale la tendenza è quella di cercare molto il clamore, la notizia spesso drammatica, magari anche con una volontà positiva di creare empatia. Così facendo però si tende a rappresentare sempre questa popolazione di cittadini stranieri come rifugiati, profughi sempre in difficoltà e sempre alle prese con la povertà o con l’emarginazione, che è una cosa che esiste per i cittadini stranieri e purtroppo anche per i cittadini italiani – anzi quello della povertà è un fenomeno diffuso e in crescita – e invece si dimentica che l’Italia è un paese dove queste persone, milioni ormai, sono parte integrante della società, lavorano, producono ricchezza e conducono vite normali, modeste ma dignitose. Sarebbe bello che accanto ai fenomeni drammatici o quelli che suscitano empatia fosse anche finalmente conosciuta e riconosciuta l’importanza di questa parte della popolazione nel nostro Paese. L’approfondimento, i report, le grandi inchieste e i reportage adesso sono ridotti all’articolo, spesso legato al fatto di cronaca, che poi permette di risalire al generale ma con modalità, tempi e audience ormai ridotti perché in tv vanno sempre in terza serata. I giornali che normalmente soffrono il tema della competizione delle vendite cercano la notizia eclatante nel bene e nel male, non spiegano le ragioni profonde che determinano queste migrazioni, né come avvengono e né in che misura. Inoltre i giornali devono poi competere con i social e sui social, social che hanno dato modo di rappresentare la realtà in modo così diretto e immediato e questo comporta tutti i cambiamenti nel modo di fare informazione di cui abbiamo discusso.

Da cittadino impegnato politicamente sia nel Comune di Roma che nella Direzione nazionale del PD quali crede che siano le sfide maggiori del “nostro tempo” e quali potrebbero essere gli strumenti e le modalità per affrontarle?

Tutti i fatti che riguardano gli uomini e che hanno a che fare col mondo che li circonda, siano essi le questioni climatiche, economiche o sociali, sono problemi che non si possono più affrontare separatamente ma vanno connessi. Tornando alle categorie sociologiche e geopolitiche vediamo che i fatti dell’immigrazione sono sempre più legati ai cambiamenti climatici ormai da tempo: la questione climatica è uno dei principali fattori di immigrazione oggi.  C’è poi la questione relativa al controllo delle ricchezze della terra, i terreni fertili, l’acqua, le risorse, e questo porta a conflitti come il water grabbing, cioè le guerre per l’acqua. Tutto questo genera il movimento di decine di milioni di persone da nord a sud e da est a ovest, considerando poi che c’è la divisione funzionale fra sfollati e profughi secondo cui gli sfollati sfuggono all’interno dello stesso stato e i profughi invece riescono ad andare oltre i confini, spesso sistemandosi nello stato più vicino. In Europa arriva la goccia dell’oceano di tutti questi movimenti, anche se poi noi ci sentiamo “invasi”.

Basta pensare alla situazione che per esempio si sta creando in Congo nelle miniere di estrazione del coltan, una combinazione di materiali necessari per la transizione ecologica ed informatica. A lavorare in queste miniere sono spesso donne e bambini che subiscono violenze e maltrattamenti dati anche dalle numerose guerriglie lì sviluppatesi per il controllo delle miniere stesse…

Sì, in queste situazioni non c’è solo lo sfruttamento degli uomini, delle donne e dei bambini ma anche il fatto che saremo noi a godere dell’utilizzo di questi materiali, spesso estratti da miniere a cielo aperto che causano la devastazione del territorio, senza che questo porti un diritto o, comunque, un elemento di ricchezza sociale ed economica a quei paesi. Come secondo effetto ovviamente questo aumento e amplifica i conflitti, perché il controllo di queste risorse diventa prioritario e quindi abbiamo formazioni irregolari che si combattono fra loro, attori internazionali che intervengono militarmente in quelle zone o per procura attraverso gruppi di mercenari o direttamente, attraverso governi fantocci, e questo genera instabilità, crea morti e paura e le persone scappano.

L'autore

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Sabia Braccia

Nata a Lanciano (CH) nel 1999 ha vissuto a Urbino e a Parma per laurearsi, rispettivamente, in "Scienze umanistiche. Discipline letterarie, artistiche e filosofiche" e in "Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale". Appassionata di storia, antropologia e ambiente, collabora con vari giornali online, segue un corso di Giornalismo d'inchiesta ambientale e, come volontaria insieme ad un nutrito gruppo di giovani amanti della natura, si occupa della manutenzione e della comunicazione social della Riserva Naturale Regionale Lago di Serranella, una delle oasi WWF d'Abruzzo.