h, certo! Volete la città 30 perché non avete niente da fare!”. “Vorrei vedere se doveste andare a lavorare tutti i giorni!”. “Se non usate l’auto è perché potete permettervi di perdere tempo!”. “Volete proprio tornare al passato, quando si andava a cavallo e si stava in casa a lume di candela!”. E via dicendo.
Sono solo alcune delle accuse che vengono rivolte a chi propone soluzioni per una svolta sostenibile della mobilità, e cioè l’introduzione del limite dei 30 all’ora (città 30), ma anche delle diverse soluzioni volte a modificare il modal split della mobilità urbana verso proporzioni più sostenibili: meno spostamenti in auto privata, più spostamenti a piedi, in bicicletta, in mezzi pubblici.
Secondo una vulgata ancora molto diffusa – soprattutto in Italia – chi si batte o chi lavora per la città 30 e per una svolta della mobilità urbana, ha sì a cuore la lotta al cambiamento climatico, la riduzione delle emissioni inquinanti, un minor numero di morti e feriti nelle strade, una città meno rumorosa (tutte cosette, no?), ma ostacola gli obiettivi della crescita economica, che invece richiedono (richiederebbero) maggior velocità, maggior libertà nell’uso dell’automobile, meno restrizioni, parcheggi davanti ai negozi, strade più larghe, eccetera.
Nelle discussioni, nelle assemblee o sui social, spiegare con pazienza che in una città 30 la perdita reale di velocità media è minima, che la maggior parte degli spostamenti in ambito urbano e suburbano possono essere effettuati con maggior efficienza con modalità diverse di spostamento da quello dell’auto privata, non porta a molti risultati: mobilità sostenibile e città 30 sono inevitabilmente simbolo di ozio, lentezza, ritorno al passato, atteggiamento “radical chic”, noia (giuro che l’ho sentito: la città 30 è noiosa), decrescita felice.
Chissà? Che abbiano ragione? Andiamo a cercare qualche dato, per vedere se davvero le città che da anni hanno iniziato un percorso rigoroso verso la svolta della mobilità sono diventate felici ma povere, se questi territori sono decresciuti.
Il primo indicatore di crescita o decrescita, quantomeno in Europa, è l’aumento o la diminuzione di popolazione: le città in crescita (economica, soprattutto) sono quelle che attraggono persone: certo, la gente si trasferisce verso luoghi con una buona qualità di vita (aria pulita, per esempio), ma soprattutto con un’economia dinamica, che crea posti di lavoro stabili e diversificati, nell’industria e nel commercio, nei servizi, nella ricerca, nella cultura.
In questo senso la popolazione delle città accusate di essere lente e noiose, dovrebbe essere diminuita negli ultimi anni, o quanto meno a tendenza stagnante. È così?
Vediamo.
Parto ovviamente da Friburgo, la mia città. Freiburg Green City, la prima città europea a chiudere il centro storico alle auto già negli anni ‘70, la città che da quasi 30 anni ha proibito la costruzione di centri commerciali all’esterno dei quartieri residenziali, la città che da oltre quindici anni ha pochissime strade con il limite dei 50, che ha interrotto il traffico automobilistico sul giro dei viali e che da oltre vent’anni porta le biciclette in carreggiata. Sarà stagnante la popolazione? Che sia addirittura calata? Andiamo a vedere: 185.000 abitanti nel 1987 (come Modena, circa, nel 1987, l’anno in cui ho iniziato l’università); 200.000 abitanti nel 1996; 215.000 nel 2005; 225.000 nel 2015; 233.000 adesso. L’età media nello stesso periodo è diminuita: con 39 anni è la città più giovane della Germania. Si trasferiscono a Friburgo giovani coppie con figli. Nel frattempo, Modena, la città in cui sono nato, ha esattamente gli stessi abitanti del 1988: 185.000. E la popolazione invecchia; il sindaco parla di inverno demografico.
Certo, si potrebbe pensare che Friburgo è un’eccezione, dal momento che le ragioni dell’attrattività di una città possono essere molte; andiamo quindi a vedere i dati di un’altra città di medie dimensioni, con caratteristiche molto diverse da Friburgo: Mainz, città in un’area più densamente popolata, a vocazione amministrativa ed industriale, ma altrettanto decisa (soprattutto negli ultimi anni) a ridurre il traffico automobilistico con scelte radicali: 180.000 abitanti nel 1990; 200.000 nel 2010; 220.000 abitanti adesso.
Proviamo a uscire dalla Germania, anche per verificare che non sia una tendenza solo tedesca. In Francia una città nota per queste scelte è Rennes, con un’eccezionale rete di trasporto pubblico e forti disincentivi all’uso dell’auto privata: 195.000 abitanti nel 1995, 225.000 adesso. In Olanda una città con scelte radicali sulla mobilità sostenibile è Utrecht: 255.000 abitanti a inizio secolo, conta ora 367.000 abitanti; avete letto bene.
Si potrebbe continuare e, se non fosse eccessivo per i fini di questo articolo, si potrebbe forse tracciare un grafico di correlazione tra scelte di mobilità sostenibile e crescita – di popolazione ed economica.
Quali conclusioni si possono quindi trarre? Forse che è proprio lo sviluppo tardo novecentesco, basato sull’auto privata, il parcheggio davanti al negozio ed il centro commerciale ad essere antiquato, lento, noioso, poco attrattivo; non solo questo tipo di città sembra essere respingente (no, la gente non vuole crescere i propri figli in un ambiente inquinato), ma sembra creare anche pochi posti di lavoro, poche opportunità.
Sui social gira una bufala, purtroppo riportata anche da tanti ambientalisti, secondo cui un non meglio identificato “CEO della Euro Exim Bank Ltd” avrebbe detto che un ciclista è una catastrofe per l’economia perché non fa benzina, non deve assicurarsi, e via di questo passo, alimentando involontariamente gli stereotipi menzionati ad inizio articolo. Andatelo a dire a Carla-Cargo, start-up di Herbolzheim, vicino a Friburgo, che ha inventato un particolare tipo di bici cargo e da alcuni anni rifornisce Amazon per le sue consegne a Manhattan; Amazon e Manhattan, noti simboli di decrescita, no? O a JOBRAD, sempre di Friburgo, che ha sviluppato il sistema delle biciclette aziendali come benefit per i dipendenti delle aziende: 90.000 aziende che partecipano al sistema, oltre un milione di bici in leasing, prezzo medio della bici 3700 euro, 900 dipendenti assunti in pochi anni. Decrescita? Catastrofe per l’economia?
Tutt’altro, evidentemente. La bicicletta e la mobilità sostenibile sono – come le altre forme di green economy – strumenti di creazione di posti di lavoro sicuri e attrattivi, dinamici e promettenti. Non è un caso che il Comune di Vignola, prima città della Provincia di Modena ad aver iniziato il percorso per diventare città 30 – e ad aver istituzionalizzato alcune strade scolastiche – ha intitolato il percorso in modo molto netto: Vignola Va Veloce.
C’è poi un secondo aspetto economico, incredibilmente poco considerato. Nelle città che fanno queste scelte, il numero di auto private per 100 abitanti si riduce inevitabilmente, diventando notevolmente inferiore alla media nazionale. Considerando che un’automobile costa dai 300 ai 500 euro al mese, tra acquisto, manutenzione, assicurazione, carburante, tasse, eccetera, nonostante sia un oggetto che rimane immobile in media per 23 ore al giorno (autoimmobile, altro che automobile!) si capisce bene come sia proprio il dover possedere un’automobile ad essere un freno per l’economia! Famiglie costrette ad avere due o tre automobili (vuoi per necessità, vuoi per le caratteristiche del territorio, vuoi per cultura) vedono questo denaro sottratto alla possibilità di spenderlo ed investirlo altrove: in formazione, svago, cultura, viaggi…Forse figli. Ecco perché, allora, sono le politiche di mobilità convenzionali, basate su auto privata e centro commerciale ad essere fautrici di decrescita.
Non molto felice, a dire il vero.