1 . Per evitare ogni equivoco, desidero precisare subito che le riflessioni qui proposte non sono politologiche o sociologico-politiche, non sono minimamente interessate ai flussi elettorali, non nascono da nessuna particolare competenza sulle strutture giuridico-costituzionali dell’Unione europea. Sono riflessioni derivanti dalle competenze di chi scrive, cioè filosofico-politiche. Quindi più generiche, più astratte, di sicuro anche più sfocate. Può darsi che si allarghi un poco l’orizzonte, può darsi che l’effimero venga ridimensionato, ma non è detto che ciò compensi i limiti che di sicuro ci sono, dal momento che la filosofia non può accampare alcuna pretesa di superiorità sulle scienze, rispetto alle quali è contemporaneamente più libera e più arbitraria. A ciò si aggiungono i limiti personali di chi scrive, ma chi scrive ha poca importanza.

2 . Per quel che posso vedere, a giochi non ancora fatti, queste elezioni non sembrano cambiare molto nella struttura, nelle prospettive e soprattutto nei limiti dell’Unione Europea. Si prospetta, più o meno, la stessa maggioranza, forse un po’ più instabile. Si prospettano più o meno le stesse politiche, cioè le stesse elusioni di problemi. Nonostante si sia un poco e vagamente parlato di un sistema difensivo europeo, la difesa, in una situazione rischiosissima, resterà per intero delegata alla Nato, cioè agli Usa, in una fase storica in cui la loro affidabilità è minima. La questione ambientale sarà oggetto di qualche complessa manovra burocratica, che sostanzialmente rinvierà di anni o decenni quel che dovrebbe essere deciso ora. La questione migratoria verrà affrontata (o meglio, verrà ignorata) con la stessa inscalfibile, ottusa disumanità. Tutto fa pensare che l’Unione Europea continuerà a non voler decidere cosa è, mantenendo la sua attuale indefinibilità giuridica: né Stato federale, né confederazione di Stati, né organismo sovranazionale, ma un vago miscuglio di tutto ciò e di molto altro ancora. Può darsi d’altra parte che questa indefinibilità sia la condizione principale della sua sopravvivenza. Nel complesso, insomma, elezioni poco utili, di sicuro non epocali. I destini dell’Europa non saranno decisi a Bruxelles, non saranno decisi da questo Parlamento né dalla Commissione che nascerà, ma tra Washington, Pechino e Mosca, nonché naturalmente dal mercato globale. Continueremo ad avere, come sempre abbiamo avuto, un’Europa che sulla scena politica mondiale non solo non è protagonista, ma forse non è neanche attore, semmai spettatore soltanto. E su questo punto sinceramente non trovo altro da dire (naturalmente non mi aspettavo molto di diverso: poteva andare assai peggio, non poteva andare molto meglio di così, dunque in fondo è anche andata bene).

3 . Su tre punti più specifici si è discusso e si sta discutendo molto nel nostro paese, e sui primi due anche negli altri: l’esplosione dell’astensionismo elettorale, la forte avanzata (non esplosiva però) delle destre estreme, la ripresa del PD e il suo consolidamento nel ruolo di secondo partito non troppo lontano dal primo, forse primo segno vitale significativo di una incipiente “era Schlein”. Dichiaro subito che nel terzo argomento non voglio entrare: troppo presto e troppo poco. Firme illustri hanno scambiato frettolosamente per “vento del cambiamento” un fiaticello tiepido che veniva dalla Sardegna: qui c’è sicuramente qualcosa di più. Di sicuro poteva andare peggio, quindi in fondo è andata quasi bene, ma dall’essere primo partito dell’opposizione all’essere guida dell’opposizione ce ne vuole, e ce ne vuole molto di più per tornare ad essere, e in maniera non effimera, forza di governo. Prendiamo atto e mettiamoci al lavoro, senza sprecare energie premature in trombe e tamburi. Restano gli altri due punti.

4 . Riguardo all’astensionismo elettorale, si è levato un coro unanimemente angosciato sulla “crisi della democrazia”. Che non si tratti di un segno di buona salute è indubitabile, ma la lettura del fenomeno dovrebbe essere un po’ più complessa di quella che vedo prevalere. La tesi non solo prevalente, ma quasi unica, è che è colpa, se non in tutto in larga parte, dell’elettorato. Si tratta di disaffezione, di sfiducia, di disinformazione, di irresponsabilità, persino di masochistica volontà di sottomissione al primo tirannello che si affacci all’orizzonte. È come se il popolo sovrano non chiedesse altro che di abdicare, e ciò, nell’ottica rousseauiana della indisponibilità e irrinunciabilità del potere sovrano, appare proprio un bieco e vile tradimento. Non si riflette abbastanza però che se si ritiene il popolo indegno della propria sovranità, si sta assumendo una posizione assai netta contro la democrazia. Se l’elettorato è una massa amorfa di indifferenti, incapaci, irresponsabili, manipolati che non chiedono altro che di obbedire, allora bisognerebbe avere il coraggio di dire che la democrazia è impossibile e che bisogna impegnarsi nella costruzione di una dittatura tecnocratica illuminata capace di guidare il gregge verso pascoli migliori. Qualcuno sicuramente pensa così e agisce di conseguenza, ma nessuno lo dice, col risultato un po’ singolare di continue patetiche invocazioni al popolo sovrano perché riassuma tutti i doveri della sovranità, e questo proprio dopo aver negato che sia degno, capace e responsabile.

Insomma, delle due l’una: o si esce dalla democrazia perché il popolo sovrano è così, oppure si riconosce che in democrazia è perfettamente normale che il popolo sovrano sia così. Perché la democrazia è un’altra cosa. Non è il sistema in cui il buon sovrano decide la cosa giusta, ma è il sistema in cui la sovranità consiste quasi unicamente in un potere di delega: non nel decidere, ma nel decidere chi decide. Non sarà la democrazia, secondo note e nobili linee teoriche, soltanto un insieme di regole formali e procedurali, saranno insite nella legittimazione democratica anche dimensioni valoriali, come pensa chi scrive e come finiscono per pensare anche i sostenitori della democrazia formale, ma resta il fatto che se parliamo di democrazia rappresentativa (e altra non ce n’è, e Rousseau non ha mai creduto che la sua democrazia ci fosse, o ci fosse stata, o potesse esserci) il popolo sovrano esercita la propria sovranità mediante delega, cioè seleziona una classe politica. E la seleziona non dal nulla, creandola cioè, ma scegliendo nell’ambito di una serie di proposte politiche che gli vengono offerte. Sceglie, cioè, tra partiti, coalizioni di partiti, leader di partiti, candidati di partito.

Ci si lamenta che la scelta è superficiale, disinformata, emotiva, irrazionale (il che ancora una volta significherebbe che il popolo sovrano è indegno della sovranità; aboliamo la democrazia?). Ma come potrebbe essere qualcosa di diverso? Esistono, in Italia e in Europa, partiti con un’identità ben definita e una proposta politica chiara? Se sì, mi si faccia l’elenco. Le coalizioni sono sempre fragili e aleatorie, e spesso un partito si presenta alle elezioni senza dire con chi vuole allearsi, e dopo le elezioni si allea con chiunque: ne abbiamo esempi insigni assai recenti. I leader di partito sono noti, si vedono in televisione, più o meno si sa chi sono, e forse non quello che vogliono ma di sicuro quello che dicono di volere. In realtà l’unica base un po’ concreta per scegliere è proprio questa, ma poi ci si lamenta della democrazia del leader, e ancora una volta di questo babbeo popolo sovrano che si sceglie un capo (abbasso la democrazia?). Quanto ai candidati, chi li conosce? A livello di elezioni comunali magari sì, ma in tutte le altre, e segnatamente nelle elezioni europee, tolti alcuni pochi casi particolarissimi, il candidato è quasi per definizione un illustre sconosciuto, scelto da un partito per ragioni ignote e non controllabili. E dunque? Dunque si procede per tentativi ed errori, simpatie e antipatie, nostalgie e speranze, proteste e dispetti. C’è altro modo?

E mettiamo che poi l’elettore si sia stufato di decidere così. Che effettivamente voglia scegliere un partito con una chiara identità e un chiaro programma, da cui sentirsi rappresentato in maniera affidabile. Che deve fare, il poveretto, se questo partito non c’è? Si deve per forza fare piacere qualcosa che non gli piace? Deve per forza scegliere quello che piace a noi commentatori illuminati, o quello che per noi commentatori illuminati è il meno peggio? E se effettivamente non gli piace scegliere un leader, almeno non tra quelli esistenti, ma vorrebbe scegliere altro, per esempio addirittura un’idea o un ideale, è colpa sua se non c’è o non si vede? E se per lui non ha senso scegliere tra candidati “paracadutati”, e comunque illustri sconosciuti se non gaglioffi conclamati, è obbligato a prendersene uno più o meno a caso?

Per usare il sacro linguaggio dell’economia, che è la teologia di oggi e dunque “dice la Verità”, se sul mercato politico l’offerta è scadente o addirittura non si capisce che cosa venga offerto, c’è da meravigliarsi se la domanda crolla? È tutta colpa del “consumatore”? Si ragionerebbe allo stesso modo nel mercato delle auto o dei pomodori? E come fa, in qualsiasi mercato, il consumatore a manifestare le propria insoddisfazione? Non compra. Dovrebbe sentirsi obbligato a comprare, alla faccia del libero mercato? E come fa l’elettore a segnalare che qualcosa non va, che nessuno gli offre qualcosa che vada bene per lui, che nessuno sembra capire le sue esigenze e i suoi problemi? Non vota: cos’altro dovrebbe fare?

È legittimo, in democrazia, esprimere dissenso e protesta? Direi che non solo è legittimo, ma che questa è la democrazia, dissenso e protesta, mentre certamente non è democrazia prendere la decisione “giusta”, a cui tutti, essendo giusta, si dovrebbero adeguare. Se ci sono partiti che incarnano dissenso e protesta, allora è una scelta razionale votare quelli, per chi vuole esprimere dissenso e protesta. Ma se non ci sono, o se fanno di tutto per rendersi invisibili e inudibili, che deve fare il povero elettore dissenziente? Non sarà che a volte non votare è l’unica scelta razionale, per chi voglia segnalare che le cose proprio non vanno e bisogna urgentemente cambiare? E non sarà che anche questo è un voto, espressione di sovranità democratica non meno di ogni altro?

Poi, certo, ci può essere di tutto. Può esserci chi non vota perché preferisce andare al mare, chi non vota per pura idiozia, chi non vota per irresponsabile disinteresse, chi non vota perché ha una particolare voglia di tirannide (mi permetto di non credere molto a quest’ultima ipotesi). Ma non è irresponsabilmente superficiale considerare la crisi della democrazia come una crisi di domanda (gli elettori, maledetti loro, non amano abbastanza la democrazia) e praticamente mai come una crisi di offerta (gli “imprenditori politici” portano sul “mercato” roba indecente, indegna di essere presa in considerazione da un elettore serio)?

Mi pare ridicolmente facile profetare che finché non verrà preso sul serio quest’aspetto del problema, l’unica cosa che può succedere è che le percentuali di votanti caleranno ad ogni elezione fino a livelli angoscianti e drammatici. Temo che sia altrettanto facile profetare che ad ogni elezione il coro delle lamentazioni e geremiadi sulla disaffezione dell’elettorato crescerà fino a livelli insopportabili. E forse sarà proprio una simile cecità a portare al collasso finale della democrazia. Profezia, quest’ultima, per fortuna molto incerta, perché in politica può cambiare tutto da un momento all’altro, e potrebbe bastare molto poco.

5 . L’avanzata delle destre, infine. Non c’è dubbio che sia preoccupante (per chi di destra non è, s’intende). È stata meno travolgente del previsto, sicuramente non saranno le destre a governare l’Europa. Il pericolo è molto più grave in alcuni paesi europei, e d’altra parte, da noi le destre estreme governano già: nel pericolo ci siamo fino al collo, alla maggior parte degli altri paesi va meglio, in qualcuno vincono addirittura, incredibile dictu, le sinistre.

Anche qui, però, capire sarebbe meglio che deprecare e basta.

Intanto: la democrazia non è “di sinistra”. Di questo la sinistra deve urgentemente farsi una ragione. Siamo ancora un po’ legati, senza riuscire a dircelo, alla vecchia idea che la democrazia sia un sistema alternativo alla rivoluzione, e forse preferibile alla rivoluzione, per “prendere il potere”. Lo abbiamo pensato per decenni che la democrazia sia un metodo per arrivare, dopo un periodo più o meno lungo e magari fasi alterne, alla “società giusta”. No, bisogna svegliarsi da questo sogno. La democrazia non è il sistema che porta, alla fine, al trionfo del Bene. È il sistema in cui non c’è male assoluto né bene finale, in cui la decisione giusta per definizione non esiste, in cui la maggioranza ha (provvisoriamente) il potere ma non ha mai ragione, in cui la minoranza non governa ma è la vera protagonista della democrazia perché ne incarna un futuro possibile, in cui non è importante decidere bene ma poter sempre cambiare, incruentemente, le decisioni prese. Eccetera.

Quindi, se gli elettori votano a destra, la destra governa legittimamente, e chi la vota non è automaticamente un bieco nemico della democrazia, ma ne incarna una possibilità, che non è la nostra, ma in un’ottica democratica vale quanto la nostra. Non può fare certamente piacere, a noi “di sinistra”, che vinca la destra, ma che vinca la destra, sperabilmente non troppo spesso e non troppo a lungo, non è automaticamente una patologia della democrazia: né è una normalissima anche se a noi non gradita esplicazione. E se per ipotesi fortunatamente molto assurda vincessimo sempre noi, questo non sarebbe il trionfo della democrazia, sarebbe la sua caduta. Ogni tanto (magari non troppo spesso né troppo a lungo) debbono vincere quegli altri. Funziona così, in democrazia, se no è un’altra roba.

Poi, si tratta di vedere chi sono quegli altri, che vincono anche se a noi non piace. Ragioniamo magari sui nostri, visto che li conosciamo meglio.

Sono fascisti? Beh, vengono da lì, è innegabile e loro stessi non lo negano. Però venire da lì ed essere quella cosa lì non è uguale (se no noi, da parte nostra, saremmo comunisti e marxisti, e non lo siamo, anche se veniamo da lì). Finché non impediscono di votare contro di loro, di pensare contro di loro, di parlare contro di loro, di scrivere contro di loro, di raccontare la storia contro di loro, no, non lo sono. Lo erano, magari ne hanno nostalgia, ma non lo sono più. Certo, creano qualche ostacolo e fanno qualche dispetto, si vede che sono a disagio, si vede che soffrono un po’, poveretti, però più di tanto non fanno, e lo sanno che non lo possono fare, e neanche ci provano. La democrazia è anche un sistema pedagogico (perché non è un sistema solo formale, veicola valori storicamente consolidati, sebbene non assoluti). E per starci dentro bisogna fare certe cose e dire certe cose, e non altre. È stato interessante sentire Giorgia Meloni commemorare Matteotti. Ha dovuto dire che aveva ragione lui, e forse in fondo in fondo lo pensava. Non ha potuto dire che avevano ragione i suoi assassini, e probabilmente non lo pensava neanche, non poteva pensarlo.

Questo significa che va tutto bene e siamo contenti? Assolutamente no. Ma la domanda da farsi, quando vincono i neo- o post- o ex-fascisti, assumendo che non è possibile che di colpo la maggioranza relativa degli elettori si converta al neo- o post- o ex-fascismo, dovrebbe essere: che cosa abbiamo fatto noi, “di sinistra”, per “convincere” tanti non fascisti che è meglio votare i neo- o post- o ex-fascisti anziché votare noi? E un paio di ideuzze in proposito ce le avrei, tutti ce le avremmo.

Nell’attesa di chiarirci un po’ su questo, intanto bisogna fare i referendum e soprattutto bisogna vincerli. È sicuramente possibile, dovrebbe persino essere facile, ma non è automatico. Bisogna lavorarci. Da ora, da subito. Perché è importantissimo mantenere saldi, contro le derive autoritarie o anarcoidi, gli argini istituzionali. La democrazia non è che il popolo può decidere tutto, ma precisamente che il popolo non può decidere tutto, perché alcune cose sono state già decise mediante un atto fondativo e non è più lecito, neanche al popolo sovrano, decidere il contrario. La democrazia è prima di tutto un sistema di governo costituzionale: il potere è diviso e limitato. Anche e soprattutto quello del popolo e di chi lo rappresenta. La democrazia può autoabolirsi, e lo ha fatto. Ma non basta che il popolo voti “male”: occorre che cedano gli argini istituzionali, occorre proprio che si creda che la maggioranza può fare tutto, e che qualunque cosa la maggioranza voglia è giusta e non tollera dissenso. La democrazia si autoabolisce quando crede di aver trionfato, di aver finalmente conquistato la “società giusta”. Per fortuna, mi sembra, ne siamo decisamente lontani.

6 . E dunque, che cosa non si può chiedere alla democrazia? Non le si può chiedere di far vincere il Bene contro il Male. Non le si può chiedere di chiamare a raccolta le masse sulla via del Progresso. Non le si può chiedere di esprimere soltanto decisioni razionali assunte da attori politici consapevoli, informati, critici e habermasiani. Non le si può chiedere di far vincere sempre noi, anche quando facciamo di tutto per perdere. Non le si può chiedere di piacerci ed entusiasmarci sempre. Non le si può chiedere di migliorare l’umanità. La democrazia è il tentativo di regolare il conflitto politico all’interno di un sistema normativo condiviso, di realizzare un consenso provvisorio che riconosca sempre i diritti del dissenso, e di andare avanti così, nel modo meno cruento possibile, sebbene l’umanità sia quello che è. Nulla di più di questo. Ma non è poco.

In copertina: © Fabrizio Uliana 2023

L'autore

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Luigi Alfieri

Luigi Alfieri, già ordinario di Filosofia politica all'Università di Urbino.