Intervista a cura di Sabia Braccia

Marta Bonafoni, nata a Roma il 18 dicembre 1976, è membro della VII Commissione consiliare (Sanità, politiche sociali, integrazione sociosanitaria, welfare) e della IX Commissione (Lavoro, formazione, politiche giovanili, pari opportunità, istruzione, diritto allo studio) del Partito Democratico nella Regione Lazio e Coordinatrice della Segreteria nazionale del PD con delega al Terzo Settore e all’associazionismo.

Partiamo dalla sua formazione. Dopo una laurea in comunicazione alla Sapienza ha iniziato a lavorare in radio ed è diventata giornalista professionista. Cosa del suo background professionale le è stato più utile nell’affrontare poi la sua carriera politica?

La formazione radiofonica inizia a casa dove il tappeto musicale del risveglio era il Giornale Radio o “Bollettino”, come lo chiamava il mio papà, che raccontava le notizie dall’Italia e dal mondo. In qualche maniera già c’era un’indicazione di quello che poi sarei finita a fare. Il primo incontro con la radio dalla parte del microfono è stato al liceo, in una trasmissione che si chiamava Il pane e le rose di una radio indipendente della mia città, che è Roma. Fu un incontro fra il mio impegno nei collettivi femministi e studenteschi del Liceo Socrate in cui mi sono diplomata e quello che sarebbe stato un percorso professionale e quindi politico. Infine durante il corso di laurea in Scienze della Comunicazione ho iniziato a lavorare in radio e oggi penso di poter dire che sono almeno tre gli insegnamenti che la radio mi ha consegnato e che ancora cerco di mettere in pratica una volta fatto il salto dall’altra parte, dalla parte della politica.

Io sono stata una cronista politica, quindi sono finita dal raccontare ad essere raccontata. Il primo insegnamento è l’ascolto, essere sempre predisposti a comprendere, a darsi il tempo dell’ascolto delle ragioni, dei bisogni, delle aspettative di chi parla e mai arrivare con la fretta o con troppe risposte precostituite, ma anzi con domande che si affacciano sulla possibilità della sorpresa e della novità. Insomma un insegnamento che viene dal giornalismo radiofonico nella sua viste di ricerca delle risposte esatte. Il secondo insegnamento è quello che definirei dal punto di osservazione da cui ho guardato la politica, mai dai palazzi e sempre dalla strada. Negli anni, più di venti – da quando ero appena diciottenne a quando poi sono entrata in Regione Lazio da consigliera – ho provato ad ascoltare sempre di più quella distanza e l’ho rimessa in onda, quella connessione fra le esigenze delle persone, fossero queste abitanti delle  aree interne o delle città, ambientalisti, studenti, donne, persone con disabilità, anziani o bambini. Il punto di vista di chi dal basso cerca di provare a capire come l’alto risponde o non risponde. Il terzo insegnamento è quello del cammino. Io sono stata per tanti anni inviata ed essere inviati in radio significa avere poco più di un telefono e provare a raccontare ciò che vedi, ma per farlo consumare le suole delle scarpe: è un altro insegnamento molto importante. Da quando faccio politica ho un mandato, che mi sono data, ossia stare tanto in ufficio quanto fuori e mai sbilanciare il lavoro con le carte rispetto al lavoro con le persone, in mezzo alle persone.

Come è nata l’idea di creare la rete “POP Idee in movimento”? Che tipo di accoglienza ha ricevuto e quanto è efficace a livello territoriale?

POP è nata nel gennaio del 2020, a due mesi dal Covid, per cui molto presto si è inabissata nell’etere, ha incominciato a viaggiare con le dirette zoom e poi è ritornata a fare iniziative nelle piazze e nei teatri in cui è presente. Nasce da un’urgenza, l’urgenza di chi come me era fuori dai partiti e vedeva tanti colleghi e colleghe amministratori, sindaci e assessori bravissimi ma privi di punti di riferimento. Allo stesso tempo vedevo tante associazioni, tanti movimenti e tante realtà – anche di tipo economico come le cooperative sociali o le librerie indipendenti – faticare ciascuna per conto proprio anziché provare a mettersi in rete, scambiare buone pratiche, parlare dei problemi, trovare soluzioni e connetterle laddove si governava o si aveva anche dall’opposizione la possibilità di presentare emendamenti e degli avanzamenti in termini di risposte. La prima volta che siano usciti allo scoperto dopo un anno di gestazione, incontri al bar e riunioni carbonare abbiamo prenotato una sala in un teatro semiperiferico di Roma, una sala da duecento posti. Mi ricordo che quel giorno c’era una pioggia battente sulla città e c’era il blocco del traffico. Io ero terrorizzata perché ero quella che doveva fare il discorso introduttivo e ho pensato quasi di far girare il taxi e tornare a casa, avevo l’horror vacui di una sala da duecento posti vuota. Invece quando sono arrivata avevano dovuto aprire una seconda sala perché la prima era già piena ed in tutto erano arrivate cinquecento persone.

“POP” si chiama così anche perché erano gli anni in cui il populismo aveva iniziato a viaggiare a gonfie vele fuori e dentro i palazzi della politica. Con quella risposta noi volevamo dirci e darci l’obiettivo di far tornare la politica, la sinistra e la politica progressista popolare in contrapposizione al messaggio semplificato del populismo, volevamo provare ad essere “reticolarmente popolari”, provando a metterci in rete fra noi. Devo dire che questa cosa ha funzionato dal punto di vista della formazione reciproca, delle iniziative politiche e degli incontri perché la politica è anche relazione. In quegli anni ho incontrato Fabrizio Barca, coordinatore del Forum “Disuguaglianze e diversità”, che è ancora un faro, un accompagnatore molto rigoroso, severo ma fondamentale. È inoltre lo stesso percorso che poi mi ha fatto incrociare quella che sarebbe diventata la prima Segretaria donna del PD: Elly Schlein.

La vicinanza alle persone è stata in effetti la tattica di Elly Schlein prima delle primarie, stare molto in piazza, stare molto con i giovani, darsi all’ascolto. Parlando proprio di Elly Schlein, vari sono i commenti e le accuse che le attribuiscono un linguaggio troppo aulico e non immediatamente comprensibile, nonostante il suo stare in mezzo alle persone. Da giornalista e comunicatrice cosa ne pensa?

Io penso che la comunicazione nel nostro Paese, anche quella mainstream, si sia molto impigrita e abbia smesso di fare ricerca di modalità nuove e dell’occuparsi di comunicare in particolare con le giovani generazioni. Se devo pensare ai format tradizionali, ai salotti televisivi, Elly Schlein non ha quelle modalità di comunicazione perché si prende il tempo e la sincerità della risposta. Quando non conosce fino in fondo ciò che le viene chiesto, dà un primo feedback ma poi si ferma e dice di dover ricercare e approfondire. Guardandola invece in una qualsiasi diretta Instagram, ci si accorge che c’è una connessione che non scatta con altri leader politici. Una connessione data da motivi generazionali, dalla formazione e da cosa quella formazione ha fertilizzato. Forse lì si comprende che c’è una risposta altra al desiderio di comunicazione: di nuovo non è quella che si aspettano. Elly non è stata quella che ci si aspettava per tante persone e in tanti aspetti. L’ha detto nello stesso teatro dove è nata POP, nella conferenza stampa nell’attesa del risultato delle primarie, appena saputo della vittoria: “non ci hanno visto arrivare”. Non hanno visto arrivare neanche questo nuovo modo di fare comunicazione politica, forse più simile ad alcune esperienze anglosassoni e del Nord America, ma non meno efficace, altrimenti non si spiegherebbe perché alle ultime elezioni europee il PD sale rispetto al gradimento dell’elettorato e perché in quell’elettorato il PD diventa il primo partito fra gli under trenta. Lì forse c’è un pezzo più scientifico della risposta rispetto a quello che potrei dire io.

Un anno e mezzo fa è stata scelta da Elly Schlein come Coordinatrice della Segreteria nazionale del Partito Democratico. Un ruolo prestigioso, onorevole e impegnativo. Quali sono le sfide più ardue di questo compito?

La sfida, lo dico quasi con una battuta, è quella di far prevalere al Partito Democratico la partita democratica, cioè la grande sfida che hanno tutti i partiti di sinistra e progressisti nel riconquistare la fiducia in quello che ormai in tutte le tornate elettorali e in tutti i sondaggi è ancora il primo partito d’Italia: quello di chi non ci crede più. Lo chiamano astensionismo, ma in realtà secondo me è una sintesi che nasconde più sentimenti. Lì dentro c’è innanzitutto il sentimento di un popolo che non si sente più rappresentato. Io faccio sempre questo esempio nel provare a ricalcare una genealogia di sinistra (che poi spesso è una genealogia di donne politiche che hanno fatto la storia delle migliori riforme di questo Paese). L’esempio è Tina Anselmi e quella riforma che è stata forse una delle più importanti per l’universalismo della nostra costituzione, quella sul Servizio sanitario nazionale, datata 1978. Quella che ci permette di dire oggi, nel rispetto dell’Articolo 32 della Costituzione, che tutti gli individui e non solo i cittadini del Paese hanno diritto a cure gratuite e universali. I cittadini sono quelli che hanno i documenti, gli individui possono anche non avere i documenti ma meritare per diritto quella risposta di salute. Nel 1978 Tina Anselmi ministra dà vita a quella riforma sanitaria e lo fa aprendo la discussione in un Parlamento votato dal 93% dagli aventi diritto. Oggi non va a votare più della metà degli aventi diritto, più della metà del corpo elettorale del Paese. Credo che la sfida più grande che non solo io ma tutta la dirigenza del PD e il partito a tutti i livelli ha, sia quella di cominciare a scalfire e ridurre quel 51% e ridiventare un paese in cui la stragrande maggioranza dei cittadini vada a votare. Non basta un partito, ma serve riconnettere il lavoro del partito a quello dei corpi intermedi che in questi anni si sono fiaccati anche a causa dei colpi durissimi inferti dai partiti, quasi per staccarli di forza da quella che era una dimensione di rappresentanza e che storicamente li consegnava alla rappresentanza.

Si può provare così a fa sì che quella sete di fiducia diventi speranza. Quando andiamo nelle piazze, Elly Schlein viene fermata soprattutto da giovani e da donne che le chiedono di tornare a sperare, e di farlo per esempio attraverso un percorso di cure specializzato, il diritto allo studio, o ancora attraverso il tema del clima. Chiedono a un grande partito progressista come il nostro di rispondere a quei bisogni, ma allo stesso tempo di portarli lontano dallo stato di bisogno verso la realizzazione della felicità, che è una cosa di cui forse avevamo smesso di occuparci da troppo tempo. È un lavoro faticoso, richiede tempi e grande tenacia. Richiede anche, e questa è forse la cosa che sto imparando di più accanto ad Elly e con il lavoro del nuovo PD, di provare a dare il giusto peso al clamore mediatico delle dichiarazioni semplici e della politica che si scambia battute. Bisogna provare a dire “tutti hanno pari dignità, ma la dignità più grande viene data dal fatto di ricostruire la speranza nel Paese” e, naturalmente, dal nostro punto di vista, un’alternativa di governo rispetto a un governo di destra o di destra estrema, qual è quello che governa l’Italia dal 2022.

Io posso riportare la mia esperienza personale; nel 2022 ero a Parma per studio, e come me moltissimi altri fuorisede. In pochi sono tornati a casa nelle proprie regioni per votare alle politiche, forse perché davvero si è persa la fiducia nel fatto che si possa concretamente influire cambiando realmente le cose.

Io penso che la tendenza al non voto è iniziata perfino quando io ho iniziato a votare negli anni Novanta. Ma comunque c’era un filo, che si assottigliava sempre più, che però ancora si teneva. Oggi credo che quel filo si sia proprio rotto ed è per questo che quando sentite parlare la Segretaria del PD forse il verbo che ricorre di più, a proposito di linguaggio e di parole inusuali, è quello del “cucire”, perché siamo di fronte a strappi sociali e non più semplici distanze. Ci sono dei veri e propri baratri, fratture molto grandi fra la sinistra e il mondo del lavoro, la sinistra e il mondo della scuola ma anche fra la sinistra e il mondo dei contadini – come avremmo detto una volta – cioè degli agricoltori che, per esempio, hanno protestato prima delle elezioni europee, tentando e in parte anche riuscendo a contrapporre alla sfida climatica ed ecologista la sfida della sopravvivenza delle imprese e del settore primario. Un tempo il Partito comunista ma anche la Democrazia cristiana avevano un legame fortissimo con il mondo agricolo, mentre oggi quel mondo è consegnato alla paura, ad una paura tale da non far collegare per esempio l’alluvione e il danno che fa a terra (al raccolto) con il danno che arriva dal “cielo” ossia il cambiamento climatico. Questo è un nesso che sulla fatica e sulla rottura della speranza non si riesce più a realizzare da soli. Noi siamo lì in mezzo e dobbiamo ricollegare il filo di quel nesso, come stiamo provando a fare ormai da 20 mesi.

Uno dei temi che la sta impegnando di più ultimamente è la lotta all’autonomia differenziata, una condizione che enfatizzerebbe, come dichiara sul suo profilo Facebook, “tutte le distanze: di genere, di generazione e territoriali”. Da giornalista e comunicatrice crede che queste tematiche siano attualmente affrontate nel modo giusto dai media e dal giornalismo mainstream nel nostro Paese?

Credo che sull’autonomia differenziata il sistema mediatico abbia reagito meglio che di fronte ad altre sfide questo perché c’è stato un coro plurale di contrasto a quell’autonomia, a partire dalle audizioni in Parlamento che l’hanno accompagnata prima di essere sciaguratamente votata come legge. Questo coro ha messo insieme la Banca d’Italia con Confindustria, con le associazioni del Terzo Settore, con i sindacati, con chi si batte per le rinnovabili. Tutti dicono che lì non solo c’è un’enfatizzazione delle disuguaglianze di genere, di generazione e territoriali – che sono le tre macro disuguaglianze che accompagnano la crisi del Paese, anche politica e democratica – che tutte insieme abbiamo rilevato nella pandemia, tanto che nella prima scrittura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del nostro Next Generation EU erano i tre parametri obliqui e trasversali da cui partire. Ce lo siamo dimenticato presto, e oggi quell’autonomia interviene ad ampliare ancora di più quelle distanze. C’è anche una stupidità di fondo, perché chi si occupa di energia, di infrastrutture, di sistemi ecologici, di trasporti – si guardi quello che è successo il 2 ottobre con i treni che ha bloccato un intero Paese – sa perfettamente che non si può regionalizzare fino a quel punto l’Italia. Non si possono creare venti staterelli che non hanno la forza di convincimento e di competitività, come piace dire, di fronte all’Unione europea e che contemporaneamente non possono mettere un muro al vento, all’acqua, al sole.

Credo che questa volta il sistema mediatico abbia reagito in maniera adeguata e abbia saputo accompagnare la presa di coscienza del Paese che infatti ha dimostrato di aver risposto alle più di trenta sigle che hanno portato il quesito referendario in Corte e che ha permesso di raccogliere più di un milione di firme a fronte delle cinquecentomila necessarie. Non è vero che ha fatto tutto la piattaforma, perché le firme sono divisibili a metà: metà ottenute su piattaforma e metà sui banchetti d’estate. Una volta depositati quei quesiti e una volta passato il vaglio del Giudice della Corte costituzionale, cosa che vedremo a partire dai primi quaranta giorni del 2025, se tutto andrà come noi speriamo, ci sarà la partita referendaria vera e propria, una campagna che dovrà accompagnare al voto (che è abrogativo) il 50% più uno degli aventi diritto, esattamente la stessa cifra di coloro che non vanno a votare. Questo fa tremare i polsi, perché servono venticinque milioni e mezzo di voti, e quindi serve uno sforzo non solo delle realtà politiche e associative, ma anche da parte dei giornali. Mi è capitato di presentare proprio in questi mesi due volumi, uno dedicato ai due referendum contro la legge sull’aborto e uno al referendum che quest’anno ha compiuto cinquant’anni, contro l’abolizione del divorzio. Andrebbero rilette le pagine di quei giorni: ci furono in particolare i settimanali femminili che fecero uno sforzo enorme, dalle lettere delle lettrici alle inchieste sociali sull’infelicità fra le mura domestiche, partendo proprio dall’infelicità per la mancata decisione sul proprio corpo. C’erano le pubblicità al cinema, c’era la cartellonistica stradale, c’erano piazze che cambiavano forma durante la campagna referendaria, perché i partiti insieme alla società civile fecero anche uno sforzo di creatività. Oggi naturalmente ci sono i social, ma credo che a questi bisogna affiancare uno sforzo fatto nelle piazze per portare a casa il risultato.

Pensiamo alle fragilità emerse durante la pandemia. In quei mesi sono saltate le tre infrastrutture fondamentali del nostro Paese: la sanità, e si è capito che averla decentralizzata, definanziata e privatizzata ha reso più distante la presa in cura delle persone e quindi ha creato più morti; la scuola, che abbiamo dovuto chiudere perché in molte erano senza rete, troppo piccole e con le famose classi pollaio; il lavoro, perché ricordo la grande festa degli ammortizzatori sociali finanziati dal debito comune europeo, la cassa integrazione, che ha salvato milioni di persone dalla disoccupazione ma allo stesso tempo ricordo anche l’impotenza di non poter dare risposte a tutti coloro che non avevano un contratto a tempo indeterminato e che comunque erano rimasti senza lavoro dalla sera alla mattina. Siamo ancora dentro questo shock e chi ha vinto le elezioni l’ultima volta ha pensato di dare risposte semplici e divisive a problemi complessi. Il tema è come conquistiamo tutti quegli altri che non hanno votato né per il centro-sinistra né per la destra, per potergli dire che abbiamo capito la lezione e che abbiamo capito di essere stati un pezzo del problema, ma che vogliamo costruire una società più giusta. Questo è il lavoro che con grande fatica stiamo tentando di fare, nella convinzione che ormai o un grande partito di sinistra mette l’asticella a quest’altezza o ha davvero poco senso di essere.

In effetti nei talk più che ai singoli partiti ci si riferisce all’opposizione parlando di “campo largo” e di scarsa coesione all’interno di quest’entità politica che, di fatto, non esiste…

Non esiste da prima delle elezioni del 2022, perché si è frantumato prima e ha consegnato il Paese alla destra. Ci vuole molta pazienza e molta tenacia, ma credo che una leadership femminista come quella di Elly Schlein garantisca innanzitutto questo. Le donne sono più capaci di pazienza e di tenacia: hanno la pazienza di millenni e la tenacia di invertire quei millenni di discriminazione per rendere giustizia a tutte, e quindi anche a tutti. È difficile comprenderlo se non si è donne e se non si è femministe, ma questo farà la differenza perché c’è una partita, come dicevo prima, più grande dei singoli partiti; e se una se la sente addosso fino in fondo, come la nostra Segretaria, la gioca fino in fondo a prescindere dai giochi di ruolo imposti dalla cornice politica.

Sempre Elly Schlein le ha affidato anche la delega al Terzo settore e all’Associazionismo. In effetti lei è sempre stata vicina al mondo delle associazioni, dei movimenti e delle comunità. Come si è evoluto questo mondo negli ultimi anni? C’è partecipazione giovanile, o il panorama rispecchia quello del grado sempre maggiore di astensionismo al voto?

Indubbiamente l’Italia, in Europa, è il Paese che esprime di più e meglio la vivacità e quelle che Fabrizio Barca chiama “scintille dell’associazionismo” e del Terzo Settore. Contemporaneamente però è anche il Paese che, proprio in quanto lo ha coltivato e cresciuto meglio, ha vissuto di più il boomerang dell’assalto ai corpi intermedi, in qualche maniera anche la burocratizzazione che del Terzo Settore e dell’associazionismo è arrivata dalla politica. A un certo punto si è pensato che quel mondo dovesse supplire alle mancanze dell’altro pezzo di mondo, del pubblico e del privato. Non è così: la fertilità del Terzo Settore, del mondo delle associazioni, a parte il discorso sui movimenti, è data dal fatto che insieme si può costruire un modello di società più forte, dove la sussidiarietà non sia “tu fai quello che non riesco a fare io” ma “insieme facciamo qualcosa di diverso per il bene comune”. A furia di non praticare e di non lasciar praticare questo sistema, abbiamo fiaccato moltissimo il mondo delle associazioni e del Terzo Settore che pure ci sono, resistono, esistono e ci chiedono di invertire la rotta e di coinvolgerle sempre di più dentro ad una progettazione sociale.

I movimenti hanno insegnato a me sicuramente che il conflitto è il sale della democrazia e che non è qualcosa da nascondere sotto il tappeto. Il conflitto ti permette di litigare con garbo, ma allo stesso tempo di avanzare e di trovare un punto avanzato di compromesso: niente di più e niente di meno della politica. Siamo in una fase del nostro Paese, ma non solo del nostro, in cui il conflitto, la ribellione e persino il pensiero critico hanno un unico sbocco: la repressione e il carcere. Siamo quindi ad uno snodo anche da questo punto di vista: un corpo sociale fatto di associazioni, movimenti e corpi intermedi già debole rischia di avere il colpo finale da parte di un governo repressivo, per cui noi dobbiamo schierarci dalla parte di chi invece esiste e resiste dentro la società e prova tutti i giorni a dare una risposta. In questo mondo i giovani, le donne e le giovani donne più di tutti hanno un marcia in più. Credo che non siano ancora usciti sui giornali i dati sulle firme per il referendum sull’autonomia differenziata e per quello sulla cittadinanza, dati che ci raccontano che nelle fasce giovanili le donne sono quelle che hanno trainato di più la raccolta delle firme nella fascia tra i 18 e i 35 anni. Sono dati che mostrano come si voglia far abbracciare all’Italia non tanto il suo futuro, quanto il suo presente, la si voglia far essere un po’ meno tardiva. Lì penso che ci sia un indicatore e un’indicazione molto forte anche per i partiti, che non sono per forza i rappresentanti di quelle piazze e di quei movimenti: né dei Fridays for Future né di Non una di meno e delle piazze del 25 novembre né delle piazze per la cittadinanza. Faccio sempre questo esempio: le piazze del 25 novembre si riempiono in maniera sproporzionata e sono oggi le piazze più grandi che vengono convocate. Donne e uomini giovanissimi che chiedono che venga ripristinato diciamo il primo seme della democrazia, quello del rispetto fra donne e uomini, e che dicono no ai femminicidi, perché sono piazze che nascono per ribellarsi alle uccisioni delle donne per mano maschile. Sono piazze che non solo chiedono quel tipo di sicurezza, ma chiedono una vita felice sicura e quindi felice, dove felice significa libera dalla violenza. Però significa anche libera dal precariato e libera di trovare una casa in affitto. Semplicemente significa autodeterminazione, quella che quando viene a mancare a un pezzo viene a mancare a e va a indebolire tutti gli altri. Questa è la sfida che noi dobbiamo giocare: quelle piazze ce lo raccontano bene e basta ascoltare, guardare e attraversarle senza desideri egemonici, perché non c’è alcuna egemonia esercitabile sulle ragazze e sui ragazzi. Anzi, c’è da cedere il potere attraverso l’ascolto e da comprendere dove quella fragilità che non è loro ma che è la fragilità di tutto quello che gli sta intorno: il clima impazzito, la salute non rispettata, l’incapacità sia di decidere se vuoi abortire sia di decidere se vuoi diventare madre, perché non hai gli strumenti sociali che ti permettano di esserlo. Se noi saremo in grado di sintonizzarci e di cominciare a costruire da una parte le risposte e dall’altra un rapporto di fiducia con quelle giovani donne che ci guardano e guardano, ad esempio, Elly quando attraversa quelle piazze con grande rispetto – ma non si sentono ancora rappresentate dal sistema dei partiti attuale, credo che potremmo iniziare a girare le lancette della storia. Sono fiduciosa sul fatto che riusciremo a farlo.

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Sabia Braccia

Nata a Lanciano (CH) nel 1999 ha vissuto a Urbino e a Parma per laurearsi, rispettivamente, in "Scienze umanistiche. Discipline letterarie, artistiche e filosofiche" e in "Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale". Appassionata di storia, antropologia e ambiente, collabora con vari giornali online, segue un corso di Giornalismo d'inchiesta ambientale e, come volontaria insieme ad un nutrito gruppo di giovani amanti della natura, si occupa della manutenzione e della comunicazione social della Riserva Naturale Regionale Lago di Serranella, una delle oasi WWF d'Abruzzo.